venerdì 23 febbraio 2024

#DivinaCommedia: Canto XXXIV

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.


Oggi analizziamo il trentaquattresimo canto dell’Inferno. Dopo aver passato la Caina, l’Antenora e la Tolomea, siamo ora arrivati alla Giudecca.
Ci troviamo di fronte a Lucifero e la reazione di Dante stesso, ma anche quella del Principe delle Tenebre, è un qualcosa che sinceramente ci commuove; di questo, però, avremo modo di parlarne.

Sappiamo che più andiamo avanti, più il peccato è peggiore, ma sinceramente non ce la sentiamo di continuare a parlare di peccati, una volta giunti a questo punto. In effetti quello che andremo a vedere è un girone inerme e silenzioso.

Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.
 «Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira»,
disse ’l maestro mio, «se tu ’l discerni».

Il primo verso è l’unico in latino che troviamo nella parte dell’Inferno. È una citazione dell’inno del VI secolo, composto da Venanzio Fortunato, verscovo di Portiers, che una volta entrato nella liturgia cattolica, veniva cantato nei giorni dell’Invenzione e dell’Esaltazione della Croce, soprattutto durante la Settimana Santa.
Dante cambia l’originale “Vexilla regis prodeunt;/Fulget Crucis misterium” (trad. “Del Monarca s’avanza il vessillo;/Della Croce rifulge il mistero”), con: “Vexilla regis prodeunt inferni”, divenendo così “Avanza il vessillo del Principe dell’Inferno”.

Noi ci troviamo d’accordo con gli interpreti che vedono in queste parole una sorta di derisione del Diavolo, proprio per calcare sul fatto che lui, superbo e arrogante, nella realtà dei fatti non ha alcun potere se non quello che gli viene conferito da Dio stesso.

Come quando una grossa nebbia spira,
o quando l’emisperio nostro annotta,
par di lungi un molin che ’l vento gira,

veder mi parve un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio; ché non lì era altra grotta.

Vogliamo procedere lentamente, perché questo è un canto fondamentale.

Immaginiamo una fitta nebbia, o l’arrivo della sera, quando il buio avvolge ogni cosa attorno a noi. Il sole è all’orizzonte, quindi noi continuiamo a vedere le ombre, anche se non del tutto nitidamente.
È proprio così che Dante ci presenta la figura del demonio: un grosso, immenso essere che paragona a un mulino perché le sue ali si muovono, provocando un vento gelido.
Proprio a causa di questo movimento, Dante si stringe dietro a Virgilio, suo unico rifugio.

Che nell’Inferno ci sia buio non è un mistero, ma qui vogliamo ricordare che solo con l’assenza di luce il Diavolo può farci paura. Certo, si potrebbe anche ribattere che è normale avere timore, dopotutto siamo di fronte alla presenza del diavolo, ma a questo risponderà Dante, che nel frattempo cerca l’aiuto in Virgilio, nella sua guida interiore.
Attenzione all’elemento del vento, che è un simbolo di trasmutazione, di cambiamento tra uno stato inferiore a uno superiore.

Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l’ombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.

Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte.

Al riparo dall’ansia e dal terrore, Dante si guarda attorno e vede tantissime anime, come sempre, ma questa volta interamente sommerse nel ghiaccio, che gli ricordano delle pagliuzze imprigionate nel vetro.
Sono in posizioni diverse tra loro: c’è chi è distesa, chi in piedi, chi capovolta, chi addirittura con il corpo totalmente inarcato.

Siamo nella Giudecca, dove sono puniti i traditori che hanno provocato danni a persone e istituzioni a cui era affidata la salvezza del genere umano.
Del perché siano messe così non possiamo essere certi, visto che nessuna parlerà con Dante, proprio perché in questo contesto si è abbandonata del tutto la propria umanità.

Il Buti, però, ha distinto i peccatori in base ai tradimenti di rango. Ci spieghiamo meglio: chi ha tradito persone del proprio rango è disteso, chi ha tradito persone di rango superiore è capovolto, chi di rango inferiore è in piedi e chi ha tradito chiunque, indipendentemente dal rango, ha il corpo inarcato.

Quando noi fummo fatti tanto avante,
ch’al mio maestro piacque di mostrarmi
la creatura ch’ebbe il bel sembiante,

d’innanzi mi si tolse e fé restarmi,
«Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco
ove convien che di fortezza t’armi».

Com’io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
però ch’ogne parlar sarebbe poco.

Io non mori’ e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,
qual io divenni, d’uno e d’altro privo.

Dante e Virgilio continuano a camminare e quando giungono in prossimità di Lucifero, la Guida dice al poeta che è di fronte al Principe delle Tenebre, per questo serve tutto il suo coraggio.

Dante non riesce neanche a descrivere come si sentisse, perché ogni parola sarebbe priva del significato necessario.
Lo vediamo diventato di ghiaccio e muto – proprio come le anime lì presenti – si sente come morto, anche se non lo è, ma allo stesso tempo non può dirsi del tutto vivo.


Ciò che vediamo in Dante è una vera e propria trasmutazione, come già accennato, di chi è di fronte alla radice di ogni suo male e, cosciente, sa di dover abbandonare una parte di sé.
Si sente morire perché non è più nell’inconsapevolezza di prima, ma allo stesso tempo non si sente più tanto vivo perché sa che non ha più appigli egoici a cui aggrapparsi. Tutto ciò che può fare, quindi, è rimanere fermo e in silenzio, a osservare.

Lo ’mperador del doloroso regno
da mezzo ’l petto uscìa fuor de la ghiaccia;
e più con un gigante io mi convegno,

che i giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant’esser dee quel tutto
ch’a così fatta parte si confaccia.

S’el fu sì bel com’elli è ora brutto,
e contra ’l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui proceder ogne lutto.

Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand’io vidi tre facce a la sua testa!
L’una dinanzi, e quella era vermiglia;

l’altr’eran due, che s’aggiugnieno a questa
sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:

e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.

Immagine presa dal web
Arriviamo ora alla descrizione di Lucifero. Vi ricordate dei giganti? Ecco, lui è nulla in confronto.

Il Re dei Demoni è conficcato nel ghiaccio fino alla cintola, quindi Dante può vedere dal suo petto in su. Ne può vedere tutta la sua ripugnanza, che in effetti un po’ deride ricordando che una volta era il più bello degli angeli, ma proprio perché ribellatosi a Dio ha perso tutta la sua grazia, divenendo l’essere orribile che è.

Alzando lo sguardo, Dante le tre facce di Lucifero – attenendosi all’iconografia dei tempi – una di colore rosso, un’altra di colore bianco-giallo e la terza nera.     
Il tre non è un numero casuale, richiama ovviamente la Trinità che senza la Grazia di Dio è carica delle emozioni più basse, rappresentate dai tre colori: il rosso per l’impotenza che causa l’ira, il bianco-giallo per la mancanza della sapienza, che causa ignoranza e invidia e il nero per la mancanza dell’amore che, come si può immaginare, causa l’odio.


Sotto ciascuna uscivan due grand’ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid’io mai cotali.

Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:

quindi Cocito tutto s’aggelava.
Con sei occhi piangëa, e per tre menti
gocciava ’l pianto e sanguinosa bava.

Sotto ciascuna testa spuntano delle ali senza penne, ricordando molto quelle dei pipistrelli – questo si contrappone con l’immagine dei Serafini, di cui in origine ne era il più splendente – è proprio il loro agitarsi che scatena il vento gelido presente nel Cocito.

Quando, cioè, agiamo mossi da ira, ignoranza, invidia e odio, non facciamo altro che alimentare il nostro inferno personale.

Dai suoi sei occhi (due per ogni faccia, ovviamente) piange lacrime, che cadono verso il mento assieme alla sua bava sanguinolenta.

Perché piange? Possiamo pensare che sia per il freddo, quindi una reazione più fisica, biologica? O perché c’è del pentimento non espresso e probabilmente anche inconsapevole?

Da ogne bocca dirompea co’ denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.

A quel dinanzi il mordere era nulla
verso ’l graffiar, che talvolta la schiena
rimanea de la pelle tutta brulla.

«Quell’anima là sù c’ha maggior pena»,
disse ’l maestro, «è Giuda Scarïotto,
che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.

De li altri due c’hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;

e l’altro è Cassio che par sì membruto.
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto».

La bava, invece, è sanguinolenta perché ogni bocca è intenta a masticare un peccatore, che quindi risultano tre: nella bocca centrale troviamo Giuda Iscariota, il traditore dei traditori, che per una somma di denaro ha rinnegato e consegnato ai Romani Gesù Cristo; nella bocca della faccia nera troviamo Bruto e nell’ultima c’è Cassio, questi ultimi traditori di Cesare, nelle famose idi di marzo del 44 a.C..

Ma non c’è tempo per dire altro, perché nel viaggio è ormai notte e i due hanno poco tempo per poter risalire.
Siamo contenti che nessuno di loro abbia avuto modo di giustificarsi, anche perché siamo tutti d’accordo che il tradimento è il peggiore dei peccati e descrive nel più becero dei modi la persona che lo commette.

Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
e quando l’ali fuoro aperte assai,

appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
tra ’l folto pelo e le gelate croste.

Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
lo duca, con fatica e con angoscia,

volse la testa ov’elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’om che sale,
sì che ’n inferno i’ credea tornar anche.

«Attienti ben, ché per cotali scale»,
disse ’l maestro, ansando com’uom lasso,
«conviensi dipartir da tanto male».

Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso,
e puose me in su l’orlo a sedere;
appresso porse a me l’accorto passo.


Immagine presa dal web
I due devono andare via dalla Giudecca e per farlo Dante si avvinghia al collo di Virgilio il quale si aggrappa ai peli ghiacciati dei fianchi di Lucifero e, con affanno, comincia a scendere verso le gambe, dicendo a Dante di tenersi molto stretto a lui, vista l’ardua scalata.
Arrivati alla spaccatura di una roccia, Virgilio posa Dante al bordo.

Abbiamo lasciato alle nostre spalle Lucifero, passando da Lucifero stesso. Ma cosa abbiamo notato? Che questo temuto re dei demoni, il principe di ogni male, la radice di quanto c’è più brutto al mondo… nell’attivo non fa assolutamente niente.
Sta lì: fermo, immobile, muto, a muovere le ali e mangiare le anime che ha corrotto, perché?

Siamo noi persone a scegliere quotidianamente se fare del male o del bene, se perseverare nella via della Grazia o se cedere al peccato. A volte è facile poter scegliere perché le due strade sono ben distinte; altre volte, invece, il confine è così sottile che solo una caduta può scuoterci e farci cambiare rotta.
Ora vediamo che tutte le anime incontrate sono state cieche, hanno camminato al buio, e sono così assuefatte dalla mancanza della luce da non comprendere che il male non può fare nulla che Dio non voglia.

Questo è il canto di Lucifero, eppure è assente, risulta come una scenografia meccanica su un palco teatrale che dà stupore – terrore – mentre la guardiamo comodamente dalle nostre poltroncine rosse.
Il male fa paura perché ne conosciamo il suo potenziale, ma quando lo vediamo davanti agli occhi e abbiamo la giusta consapevolezza per poter decidere se seguirlo, lo vediamo per quello che effettivamente è: una scelta. Così come è una scelta il bene.
Quale essere consapevole di sé andrebbe a scegliere il male? Ed ecco che vediamo proprio il Purgatorio: quel luogo dove dobbiamo depurarci dalla vecchia versione di noi, pentita e in cerca di redenzione.

Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com’io l’avea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere;

e s’io divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
qual è quel punto ch’io avea passato.

«Lèvati sù», disse ’l maestro, «in piede:
la via è lunga e ’l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede».

Non era camminata di palagio
là ’v’eravam, ma natural burella
ch’avea mal suolo e di lume disagio.

«Prima ch’io de l’abisso mi divella,
maestro mio», diss’io quando fui dritto,
«a trarmi d’erro un poco mi favella:

ov’è la ghiaccia? e questi com’è fitto
sì sottosopra? e come, in sì poc’ora,
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».

Ed elli a me: «Tu imagini ancora
d’esser di là dal centro, ov’io mi presi
al pel del vermo reo che ’l mondo fóra.

Di là fosti cotanto quant’io scesi;
quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto
al qual si traggon d’ogne parte i pesi.

E se’ or sotto l’emisperio giunto
ch’è contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto

fu l’uom che nacque e visse sanza pecca;
tu haï i piedi in su picciola spera
che l’altra faccia fa de la Giudecca.

Qui è da man, quando di là è sera;
e questi, che ne fé scala col pelo,
fitto è ancora sì come prim’era.

Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fé del mar velo,

e venne a l’emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
quella ch’appar di qua, e sù ricorse».

Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto

d’un ruscelletto che quivi discende
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
col corso ch’elli avvolge, e poco pende.


Virgilio e Dante sono quindi su di una roccia, al sicuro, con il sole che si sta alzando in cielo – sono circa le sette del mattino – strano, se fino a qualche secondo fa era notte.
Dante non si spiega questo scorrere così veloce del tempo, né perché sta vedendo Lucifero capovolto.
Procediamo ora come se avessimo messo l’avanti veloce perché nelle parole di Virgilio vi è effettivamente una lezione scientifico-dottrinale sulla differenza dei due emisferi – australe e boreale, con annessi cambi di fuso orario – e sulla caduta dell’angelo superbo negli inferi e nel 2024 non pensiamo servano ulteriori approfondimenti.
Vi consigliamo comunque di leggerla, con le sue parafrasi, perché merita moltissimo, soprattutto per il tempo in cui è stata scritta.

Se vogliamo vederci un qualche cosa di esoterico, vogliamo farlo dicendovi che una volta passata la radice del nostro male, la notte dentro di noi svanisce in un lampo, lasciando il posto alla luce del mattino.

Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d’alcun riposo,

salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle
che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.


Ogni cantica finisce con la parola “stelle”, proprio per dare una speranza di luce nel buio a ognuno di noi.
Virgilio e Dante non hanno tempo e voglia per riposarsi – perché una volta intrapreso a fondo il cammino non ci si può più fermare – e in fila con la Guida davanti e il Poeta dietro – perché dobbiamo sempre seguire il nostro Sé Interiore – procedono verso l’esterno, dove Dante rivede le sue amate stelle.

È un caso che inizieremo con il Purgatorio a fine marzo, il mese della rinascita e con una primavera appena iniziata? Decidetelo voi, noi personalmente non crediamo al caso.

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