venerdì 26 gennaio 2024

#DivinaCommedia: Canto XXXIII

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.


Oggi analizziamo il trentatreesimo canto dell’Inferno. Dopo aver passato la Caina e aver trovato i traditori dei parenti, continuiamo a esplorare l’Antenora con i suoi traditori della patria, per poi vedere i traditori degli ospiti nella Tolomea.

Sappiamo che più andiamo avanti, più il peccato è peggiore. I traditori degli ospiti hanno infatti commesso un peccato nei confronti degli amici fiduciosi. Ci si può indignare, pensando che i legami di sangue valgano di più rispetto a quelli tra non parenti, ma così non è.
Ovviamente questo non vuol dire che debbano esistere classifiche relazionali, ma il concetto verrà meglio espresso negli incontri che faremo con le anime.

Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.

Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.

Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme.

Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo.

Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.

Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;

però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.

Eravamo rimasti con Dante che aveva chiesto di presentarsi all’anima intenta a mangiare la testa di un’altra lì vicino. La risposta, però, non sta nella presentazione di sé, perché il personaggio – soprattutto ai tempi – è abbastanza noto, stiamo di fronte al conte Ugolino della Gherardesca.

Attratto dalla promessa di Dante di dargli il giusto riconoscimento nel mondo dei vivi, Ugolino ne approfitta parlando non di quanto ha fatto, ma di cosa ha patito durante la sua prigionia.

A noi esseri umani del Duemila, però, serve un piccolissimo passo indietro, giusto per rispolverare un po’ la storia.

Ugolino della Gherardesca (1210 circa – 1280) era un nobile pisano appartenente a una nota e antica famiglia ghibellina.     
Per il suo status elevato era abbastanza influente e potente, sia perché possedeva vaste tenute nella Maremma e in Sardegna, sia perché fu per un periodo vicario del re Enzo di Svevia.

Dal 1272 coprì diversi ruoli politici e istituzionali proprio a Pisa, dove cominciarono a circolare voci che lo videro sospettato di connivenza con la parte guelfa dei Visconti, nemici di Pisa e imparentati al conte.
Quando nel 1284 Pisa entrò in guerra contro Genova, lui aveva il comando della flotta, la quale venne sconfitta a Meloria. Questo fece sì che Genova, Firenze e Lucca si unissero contro Pisa e Ugolino fu costretto a cedere dei castelli per pagare il riscatto dei prigionieri ghibellini a Genova. Tra intrighi e sete di potere, però, allo stesso tempo si autoproclamò signore di Pisa e rifiutò un’alleanza con l’arcivescovo Ruggieri, confermando i sospetti di cui abbiamo parlato prima.
Arriva l
ora della vendetta. Larcivescovo riuscì prima a mettere contro Ugolino le note famiglie: Orlandi, Gualandi, Sismondi e Lanfranchi; poi fece finta di volere la pace con Ugolino, lo invitò con la scusa di discutere della cacciata definitiva dei Visconti, ma appena il conte si presentò, venne condannato per tradimento a seguito dei castelli venduti.
Fu rinchiuso assieme ai figli e ai nipoti in una delle torri dei Gualandi – altra famiglia di Pisa – chiamata Torre della Muda.

Breve pertugio dentro da la Muda
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,

m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno
che del futuro mi squarciò ’l velame.

Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.

Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte.

In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.

Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane.

Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?

Ora Ugolino della Gherardesca comincia il suo racconto un po’ più intimo. Lo inizia con un sogno premonitore – all’epoca i sogni avuti di primo mattino erano considerati delle vere e proprie profezie – dove dei lupi famelici, messi proprio dalle famiglie Gualandi, Sismondi e Lanfranchi, si palesavano davanti a un signore con i suoi figli e questi, pur scappando, venivano morsi ai fianchi.

Al risveglio del terribile incubo, Ugolino ricorda che i suoi figli (chiama in questo modo anche i nipoti lì presenti) gli chiedevano in lacrime un po’ di pane, e la scena è così straziante che lo stesso Ugolino domanda: “Se non riesci a piangere per questo, per cos’altro dovresti farlo?

Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;

e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
e l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.

Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: ‘Tu guardi sì, padre! che hai?’.

Perciò non lacrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.

Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,

ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi

e disser: ‘Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia’.

Queta’mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?

Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: ‘Padre mio, ché non mi aiuti?’.

Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno».

La mattina continua a scorrere e la fame con i suoi morsi ad aumentare, ma del cibo che solitamente veniva servito in un quel momento della giornata, non vi è ancora traccia.     
Secondo alcuni commentatori tutti, in quella cella, avevano fatto lo stesso sogno, per cui cominciano a capire che il loro destino è proprio quello di morire di fame. Questo è confermato quando Ugolino sente inchiodare la porta e lì capisce che non avranno mai possibilità di uscita.

Nonostante i pianti, i lamenti, le richieste d’aiuto dei ragazzi, Ugolino è così sconvolto che non proferisce parola fino al mattino successivo, quando al risveglio, vedendo i volti dei figli, comincia a mordersi i polsi sia dal dolore che dalla fame.

A questo punto tutti gli altri si alzano e dicono a gran voce: “Padre, sarà per noi minor dolore se tu ti cibi di noi: tu ci hai dato queste carni consunte e dunque mangiale”.
Sentendo ciò, Ugolino si costringe alla calma, proprio per non urtare maggiormente i figli che, nel giro di sei giorni muoiono tutti quanti. La stessa sorte tocca al conte il quale, per enfatizzare il lacerante dolore, ammette di essere morto per tale sentimento piuttosto che per la fame. Quest’ultima frase è stata a lungo interpretata come l’ammissione dello stesso di essersi cibato dei propri figli.

Come accaduto già in precedenza nel Limbo, con Farinata degli Uberti, con Pier della Vigna, con Jacopo Rusticucci, Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandeschi e con Ulisse, anche qui Dante non condanna il peccato di Ugolino della Gherardesca, bensì ne esalta le grandi qualità di padre e infatti la sua reazione è abbastanza irosa.

Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti.

Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ’l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,

muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona!

Che se ’l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.

Innocenti facea l’età novella,
novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata
e li altri due che ’l canto suso appella.

Ecco che Dante, mentre l’anima torna a mordere fino all’osso quella di chi ha accanto, comincia la sua invettiva nei confronti di Pisa. Augura alla città e a ogni suo abitante di venire sommersa dall’Arno perché anche se un padre – in questo caso Ugolino – sbaglia, a rimetterci non devono essere i figli, i quali dovrebbero essere riconosciuti innocenti di fronte alle colpe dei genitori.

A questo punto si abbandona la zona dedicata ai traditori della patria e si comincia ad andare verso la Tolomea dove troveremo i traditori degli ospiti.

Noi passammo oltre, là ’ve la gelata
ruvidamente un’altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.

Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l’ambascia;

ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.

E avvegna che, sì come d’un callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,

già mi parea sentire alquanto vento:
per ch’io: «Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento?».

Ond’elli a me: «Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l’occhio la risposta,
veggendo la cagion che ’l fiato piove».


Chiuso il livore contro Pisa, che punta il faro sulla bestialità della politica del tempo, i due pellegrini vanno avanti e si ritrovano in un punto dove i dannati sono immersi nel ghiaccio non più verticalmente, ma orizzontalmente, in posizione supina. Già capiamo che il dolore che provano è più grande, proprio perché è coinvolto tutto il corpo. Per questo motivo, se i primi dannati riescono a piangere, pur aumentando il proprio male, questi ne sono totalmente impossibilitati, perché gli occhi sono coperti per intero di ghiaccio.

Vediamo come queste anime siano destinate a tenersi tutto dentro e ammettiamolo: purtroppo siamo stati quasi tutti traditi dagli amici, ma non vi risulta che chi ha commesso questo atto sia proprio una persona estremamente chiusa emotivamente? Non si aprono al mondo, e meno che mai ammettono le proprie colpe. Tra l’altro, per quanto possano aver fatto male a noi, non è nulla in confronto a quello che patiscono in vita… ma ci arriveremo.

Dante poi chiede a Virgilio come mai qui tira vento. Nella scienza medievale, infatti, si pensava che questo fenomeno naturale nascesse dalla terra riscaldata dal calore del sole, ma visto che si trovano ben lontani dalla fonte di luce, il Poeta è veramente sorpreso da ciò. Virgilio gli risponde che proseguendo avrà tutte le risposte che vuole.

E un de’ tristi de la fredda crosta
gridò a noi: «O anime crudeli,
tanto che data v’è l’ultima posta,

levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,
un poco, pria che ’l pianto si raggeli».

Per ch’io a lui: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».

Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo;
i’ son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo».


Troviamo, di nuovo, un altro siparietto divertente scaturito da un equivoco, questa volta consapevole per Dante. Un anima sente il parlare dei due e non potendoli vedere li scambia per nuovi dannati; chiede quindi aiuto nella richiesta di farsi togliere il ghiaccio dagli occhi per poter avere anche solo un minimo di sollievo. Dante, astuto, risponde che vuole sapere il suo nome, prima di poterlo fare. Per farlo parlare promette che se poi non adempierà alla parola data, andrà di sua spontaneità all’ultima parte dell’Inferno. In effetti fa ridere, pensando che ci sarebbe andato comunque. Convinto da ciò, l’anima risponde che è frate Alberigo. Qui serve sapere la sua storia prima di proseguire.

Alberigo di Ugolino dei Manfredi di Faenza (1200 circa – dopo il 1300) è un frate gaudente che entra in una disputa con Manfredo e Alberghetto dei Manfredi. Dopo un po’ di tempo li invita a un banchetto per riappacificarsi.
È il 2 maggio 1285 e ovviamente è tutta una messa in scena, perché sul finire del pranzo, al momento della frutta, dei sicari li uccidono senza pietà.

Ora, i più attenti hanno visto come abbiamo parlato al presente di frate Alberigo, questo perché al momento del viaggio di Dante per gli inferi, lui è ancora vivo. E no, non si tratta di un errore di data come accaduto in precedenza, è proprio vivo e vegeto.

Ma perché?

«Oh!», diss’io lui, «or se’ tu ancor morto?».
Ed elli a me: «Come ’l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza porto.

Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’Atropòs mossa le dea.

E perché tu più volentier mi rade
le ’nvetrïate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l’anima trade

come fec’ïo, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.

Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l’ombra che di qua dietro mi verna.

Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch’el fu sì racchiuso».

«Io credo», diss’io lui, «che tu m’inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni».

«Nel fosso sù», diss’el, «de’ Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancor giunto Michel Zanche,

che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che ’l tradimento insieme con lui fece.


Infatti anche Dante nota che il frate è ancora vivo e vegeto, così lui gli spiega che non sa come, non sa perché, ma già dal momento in cui si tradisce un amico l’anima sprofonda nella Tolomea, mentre il corpo, ancora sulla Terra, è guidato da un demone.

Questo è totalmente assurdo, e frate Alberigo, per dare più prove possibili, fa il nome di un altro dannato al quale è toccata la stessa sorte molti anni prima: Branca Doria (1233 circa – 1325). Dante è sempre più incredulo, tanto che gli risponde quanto sia impossibile, visto che sa per certo che il Doria conduce la stessa vita di sempre.

Branca Doria è a capo del tradimento subito ai danni del genero Michele Zanche (che abbiamo incontrato nel canto dei barattieri) nel 1275, quindi sono venticinque anni che la sua anima soffre nella ghiacciaia qui presente.

Ora, considerando tutto ciò dovrebbe venirci più facile perdonare chi ci ha traditi. Ovviamente non prendiamo alla lettera le parole del Sommo Poeta, ma sappiamo per certo – proprio perché compariamo il nostro cammino spirituale alla mappa dataci da Dante – che il traditore vive in una condizione infernale dalla quale è sì difficile uscirne, ma allo stesso tempo ha la redenzione a portata di mano, anche se questo lo vedremo con l’uscita dall’Inferno.

Chi ha commesso questo peccato, quindi, ha i sentimenti totalmente in stand by, anche se mente agli occhi degli altri. Non sa cosa sia l’amore, la compassione; odia se stesso più di quanto possa mai odiare gli altri. Inutile serbare rancore verso chi è costretto al gelo più profondo, tanto da non potersi muovere neanche di un millimetro.

Ma perdonare vuol dire provare pietà? Assolutamente no.

Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi». E io non gliel’apersi;
e cortesia fu lui esser villano.

Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?

Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,

e in corpo par vivo ancor di sopra.


Il frate ora vuole che Dante gli tolga il ghiaccio dagli occhi, ma il Poeta non ci pensa nemmeno, anzi. Ci dice che: “Fu cortesia esser villano nei suoi confronti”, poi fa partire la seconda invettiva, questa volta nei confronti dei genovesi.

Concentriamoci sul perché il Poeta considera cortesia l’esser stato villano. Perdonare, come detto prima, non è mostrare pietà né accettare di continuare a condividere la propria vita con chi ci ha fatto così male. Abbiamo già parlato dell’arte del perdono, quindi la consideriamo così come l’abbiamo sempre fatto: un dono verso noi stessi affinché la smettiamo di portare inutili rancori.

Avendo la certezza che dietro una facciata di indifferenza l’anima della persona traditrice sta patendo le peggiori sofferenze, il rancore si scioglie perché, volendo vedere la vendetta, volendo vedere la stessa atrocità a noi inflitta, ora che ne è consapevole ci libera dal suo peso e noi possiamo andare avanti nella nostra vita.

Non a caso siamo ormai praticamente giunti alla fine dell’Inferno. Dopo quasi quattro anni di lavoro su noi stessi. Ben fatto! 

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