venerdì 29 marzo 2024

#DivinaCommedia: Canto I - Purgatorio

Foto presa dal web
Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.


Oggi analizziamo il primo canto del Purgatorio. Dopo aver attraversato tutto l’Inferno, siamo finalmente giunti al nostro momento di purificazione.
Ci troviamo di fronte a Caronte, ma quello che poteva farci paura prima, ora è visto con un altro atteggiamento. Il sollievo, però, non basta ad abbandonare del tutto certi modi.

Abbiamo visto tutti i nostri peccati e come questi siano stati sempre più orribili mano mano che andavamo avanti. Adesso tutto si ribalta, e il cammino ha come obiettivo la nostra salvezza.

Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.

Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;

e canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.

Le prime due terzine annunciano già quello che andremo a vedere e cioè la differenza del Regno dellInferno con quello del Purgatorio. Prima, infatti, le anime erano ferme, impossibilitate a procedere e uscire oltre la condanna eterna scelta dall’alto. Ora, invece, le anime sono più dinamiche perché la loro volontà è uguale a quella divina: accedere al Paradiso.
Cambierà anche lo stile di Dante che, proprio come un marinaio quando sa ben governare la sua nave alza le vele, lui può innalzarsi dal punto di vista della poesia.

Quando procediamo a vele piegate è perché siamo insicuri, nel pieno della tempesta e non possiamo fare altro che rimanere fermi, immobili. Una volta calmate le acque, o dopo averle dominate, le vele si alzano e noi possiamo procedere sicuri con il nostro cammino.

Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calïopè alquanto surga,

seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.

dettaglio del dipinto
"Le Muse Urania e Calliope",
Simon Vouet, 1630 ca
Qui Dante invoca l’aiuto delle Muse perché, citiamo le sue parole prese da una lettera a Cangrande: “I poeti […] aggiungono un’invocazione, dovendo chiedere alle sostanze superiori qualcosa che non resta nella comune misura degli uomini, quasi un dono divino”.

L’umiltà del Sommo Poeta sta proprio nel fatto che, essendo totalmente consapevole di sé, è il primo a sapere che nell’arte nulla viene dal nostro Ego, bensì da qualcosa di superiore che aleggia intorno al tutto.

Quindi Dante si affida alle Muse: le nove sorelle figlie di Zeus e Mnemosine (Memoria), guidate dal dio Apollo. Tutte e nove rappresentavano l’Arte come via per arrivare al Tutto, all’Uno divino. Abbiamo Clio (arte del canto epico), Euterpe (arte della poesia lirica e della musica), Talia (arte della commedia), Melpomene (arte della tragedia), Tersicore (arte della lirica corale e della danza), Erato (arte della poesia amorosa, del canto orale, della geometria e della mimica), Polimnia (arte della danza rituale e del canto sacro), Urania (arte dell’astronomia, l’epica didascalica e della geometria) e infine Calliope (arte della poesia epica e dell’Elegia).

È proprio a quest’ultima che Dante si rivolge apertamente, sia perché già Esodo la descrive come la più nobile delle Muse, sia in ricordo della vittoria sulle nove figlie di Pierio – re di Macedonia – che avevano deciso di sfidare le sorelle in una gara di canto. Le superbe Pieridi vennero sconfitte proprio da Calliope e per castigo vennero tutte e nove trasformate in gazze: uccelli noti per la voce stridula e monotona.


Ricordare questo fatto, forse non a tutti noto, è ancora una volta un ammonimento verso la superbia: arma che si rivolta continuamente contro chi la utilizza.

Dolce color d’orïental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,

a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ‘l petto.

Lo bel pianeto che d’amar conforta
faceva tutto rider l’orïente,
velando i Pesci ch’erano in sua scorta.

I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima gente.

Goder pareva ‘l ciel di lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo sito,
poi che privato se’ di mirar quelle!

Dopo l’invocazione Dante è come scosso da un’immensa gioia, visto che può riguardare finalmente il cielo che va schiarendosi per l’inizio del nuovo giorno.
Immaginiamo l’alba di inizio aprile, quando il cielo è azzurro e il sole riscalda la terra. L’astro nascente non è ancora alto, così Dante può osservare quattro stelle, che non furono mai viste da nessuno se non dai primi uomini sulla Terra: Adamo ed Eva. Qui, ovviamente, bisogna considerare i tempi: Dante si trova a sud dell’Equatore e all’inizio del Trecento si pensava che tutta la popolazione terrestre abitasse al di sopra.

Queste stelle, comunque, rappresentano le quattro virtù: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Proseguendo andremo a vedere a chi appartengono nella loro totalità.

Com’io da loro sguardo fui partito,
un poco me volgendo a l ‘altro polo,
là onde il Carro già era sparito,

vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.

Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a’ suoi capelli simigliante,
de’ quai cadeva al petto doppia lista.

Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.


Voltandosi dall’altra parte, Dante nota la figura di un vecchio dall’aspetto così regale che non può far altro che dimostrargli tutta la sua devozione fin dal primo momento.
Ha la barba lunga e brizzolata, così come lo sono i capelli e le quattro stelle citate prima gli brillano attorno da far sembrare il suo volto come un sole.

Finalmente i personaggi che incontreremo hanno una descrizione molto più bella rispetto ai precedenti. Andiamo adesso a vedere chi è…

«Chi siete voi che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?»,
diss’el, movendo quelle oneste piume.

«Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?

Son le leggi d’abisso così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?».


Questo custode è Catone – spiegheremo la sua storia dopo – e proprio come i custodi precedenti, non riconosce Dante come vivo, così pone ai due le stesse domande, seppur con toni diversi. Chiede loro chi siano, come hanno a uscire dall’Inferno e soprattutto, perché.

Lo duca mio allor mi diè di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fé le gambe e ‘l ciglio.

Poscia rispuose lui: «Da me non venni:
donna scese del ciel, per li cui prieghi
de la mia compagnia costui sovvenni.

Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi
di nostra condizion com’ell’è vera,
esser non puote il mio che a te si nieghi.

Questi non vide mai l’ultima sera;
ma per la sua follia le fu sì presso,
che molto poco tempo a volger era.

Sì com’io dissi, fui mandato ad esso
per lui campare; e non lì era altra via
che questa per la quale i’ mi son messo.


Notiamo ancora una differenza rispetto all’Inferno: Virgilio fa in modo che anche Dante si inchini e prostri di fronte a Caronte. In più parla al custode del Purgatorio con tono sommesso, rivelando la sua identità solo come semplice guida del vivente con lui, voluta dal divino.

La superbia che tanto ci ha accompagnato nel regno precedente, ora lascia il posto all’umiltà, in primis di Dante e Virgilio: della guida e della persona che intraprende il viaggio.

Non può esserci Rivelazione alcuna su noi stessi, difatti, se prima non ci rendiamo umili di fronte alle persone e situazioni che si parano nella nostra vita.

Mostrata ho lui tutta la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti
che purgan sé sotto la tua balìa.

Com’io l’ho tratto, saria lungo a dirti;
de l’alto scende virtù che m’aiuta
conducerlo a vederti e a udirti.

Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.

Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.

Non son li editti etterni per noi guasti,
ché questi vive, e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti

di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.

Lasciane andar per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se d’esser mentovato là giù degni».


Virgilio racconta ancora una volta come ha ricevuto la proposta di accompagnare Dante e il fatto che non ha potuto negarsi in quanto volontà Divina. Poi, per fare in modo che Catone li lasci passare, comincia a decantare la sua virtù, proprio come fatto in precedenza dai demoni.

Gli dice che Dante è alla ricerca della libertà, la stessa che ha ricercato anche lui, a costo della sua vita. Adesso un attimo di pausa per raccontare la storia di questo personaggio.

Marco Porcio Catone nasce nel 95 a.C. e per tutta la sua vita combatte con valore e orgoglio in difesa delle libertà repubblicane. Quando le sorti della Repubblica sono ormai finite, per non diventare ostaggio di Cesare, si toglie la vita nel 46 a.C., dopo aver trovato la forza di farlo leggendo per tutta la notte il dialogo Fedone di Platone.

Ma come mai un suicida che non ha mai potuto conoscere il Cristo è al Purgatorio?

Dante fa questa scelta che noi personalmente ammiriamo nel profondo: Catone si toglie la vita per acquisire la libertà eterna. I suoi valori sono stati traditi dalla realtà terrena e avendo combattuto per una vita intera a favor di quegli ideali repubblicani, non può moralmente accettare una condizione di schiavitù, persecuzione, o prigionia.
È la morte per la liberazione dal peccato, è la morte di chi non accetta una condizione di mera sopravvivenza alla gioia della vita terrena.
È la condizione di chi è leale a se stesso fino in fondo; di conseguenza è la condizione di chi avrebbe dato la vita per la lealtà e il benessere degli altri.
Catone, insomma, sta a un altro livello.

Dopo le lusinghe di Virgilio, ecco che la Guida gli promette – sempre come già fatto in precedenza – di parlare bene di lui a sua moglie Marzia che, ospite nel Limbo, ancora lo cerca.

«Marzïa piacque tanto a li occhi miei
mentre ch’i’ fu’ di là», diss’elli allora,
«che quante grazie volse da me, fei.

Or che di là dal mal fiume dimora,
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n’usci’ fora.

Ma se donna del ciel ti muove e regge,
come tu di’, non c’è mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge.

Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d’un giunco schietto e che li lavi ‘l viso,
sì ch’ogne sucidume quindi stinghe;

ché non si converria, l’occhio sorpriso
d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
ministro, ch’è di quei di paradiso.

Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
là giù colà dove la batte l’onda,
porta di giunchi sovra ‘l molle limo;

null’altra pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch’a le percosse non seconda.

Poscia non sia di qua vostra reddita;
lo sol vi mosterrà, che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita».


E infatti Catone si dimostra di altro livello. Non gli servono le lusinghe, né il sapere di Marzia che, lontani dal mondo materiale, non ha più alcun legame con lui. Può sembrare cattivo, nella realtà dei fatti è quanto di più dolce ci possa essere: dare all’altro la libertà di andare avanti quando qualcosa finisce.
A Catone basta sapere che quel viaggio è voluto da una donna celeste per poterli far proseguire, a un patto, però: che Dante si leghi con un giunco e si lavi il viso dalla sporcizia dell’Inferno.

Perché tutto ciò?

Sono dei rituali di purificazione. Il giunco è la pianta simbolo dell’umiltà: non è bella a vedersi, né attira l’attenzione, eppure cresce forte e salda sulle rive fangose. Il lavarsi il viso indica togliersi del tutto i residui del passato, perché non sta bene farsi vedere dalle creature celesti – gli angeli – con la sporcizia del peccato.

Dopodiché Catone consiglia loro di non tornare indietro, ma di proseguire verso una strada più semplice, che il sole stesso indicherà loro quando si sarà fatto più alto in cielo. Perché è da adesso, infatti, che cominciamo a fidarci del divino e dei segnali che ci manda.

Così sparì; e io sù mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai.

El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a’ suoi termini bassi».

L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.

Noi andavam per lo solingo piano
com’om che torna a la perduta strada,
che ‘nfino ad essa li pare ire in vano.

Quando noi fummo là ‘ve la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,

ambo le mani in su l’erbetta sparte
soavemente ‘l mio maestro pose:
ond’io, che fui accorto di sua arte,

porsi ver’ lui le guance lagrimose;
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che l’inferno mi nascose.


Bisogna fare bene attenzione ora, perché è un passo importante, probabilmente ben comprensibile solo a chi ha effettivamente attraversato il suo inferno personale.
Dante non emette parola, segue ciecamente Virgilio, gli dà piena fiducia. Si incamminano a ritroso, come se il viaggio fatto finora fosse stato inutile. È capitato anche a noi, non ve lo neghiamo: mesi, anni a guardare il male dentro, per poi averlo sciolto completamente e… tornare al punto di partenza.

Sembra tutto vano, ma in realtà è necessario. Si torna al punto di partenza finché non ci si depura definitivamente. La rugiada con la quale Virgilio pulisce il volto rigato dalle lacrime di Dante è simbolo di benedizione, di perdono totale.

Le lacrime, sintomi e simboli dei dolori provati, sono così depurate e andate via. Dante ora può riscoprire un colore che l’inferno gli ha nascosto, proprio come noi, tornati alla vita, la riscopriamo completamente diversa – seppur non sia cambiato nulla nell’effettivo – da come ci appariva prima.

Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.

Quivi mi cinse sì com’altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l’umile pianta, cotal si rinacque

subitamente là onde l’avelse.


Arrivano ora alla spiaggia deserta che non ha mai visto alcun essere vivente, con una piccola frecciatina per Ulisse che era quasi riuscito ad arrivare al Purgatorio, salvo poi morire in mare.
Sia adesso che nel canto XXVI, infatti, vi è l’espressione “com’altrui piacque”, ma che differenza c’è tra Ulisse e Dante? La stessa che troviamo tra la superbia e l’umiltà.

Ulisse intraprende il viaggio per essere ricordato tra i grandi nella vita terrena, Dante aspira a quella divina e di conseguenza il suo viaggio è guidato direttamente dall’alto. Gli ostacoli che incontra sono stati messi per la sua crescita personale e di consapevolezza, non possono quindi portarlo alla morte. Per Ulisse, così per ogni superbo, la condanna è dietro l
’angolo.

Dopo che Virgilio cinge Dante strappando un pezzo della pianta di giunco – che poi ricresce da sola – i due sono pronti per continuare il viaggio, ma questo lo vedremo il mese prossimo.

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