venerdì 23 giugno 2023

#DivinaCommedia: Canto XXVI

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.

Oggi analizziamo il ventiseiesimo canto dell’Inferno. Siamo a un punto in cui l’intelletto la fa da padrone, ma allo stesso tempo non possiamo, anzi, non dobbiamo procedere guidati solo da esso.
L’esempio più calzante di quanto detto in queste poche righe lo vediamo nella storia di Ulisse e di come abbia messo fine alla sua vita in un impeto di follia.

Al solito vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su se stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ‘nferno tuo nome si spande!

Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.

Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.

E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo.

Questa prima parte è necessaria per staccare dal canto precedente e attaccare in questo. Come abbiamo già visto il mese scorso, infatti, Dante ha incontrato ben cinque anime dannate, tutte di Firenze, che sono state punite nel girone dei ladri. Ora è tempo di incontrare i nuovi peccatori: i consiglieri fraudolenti    
Ma prima di soffermarsi su di loro, Dante deve sfogare sul suo senso di vergogna nei confronti della sua città che si è resa famosa persino all’Inferno.
Per Firenze Dante fa una vera e propria profezia: prima o poi la città sarà punita severamente per le sue colpe. Il poeta spera che il castigo arrivi il prima possibile perché più passerà il tempo, più la pena sarà esemplare.
La citazione a Prato, come città che più attende la sorte di Firenze, viene probabilmente per la battaglia nella stessa dell’aprile 1309, quando furono cacciati da lì i Neri.     
Insomma, questa prima parte serve più che altro come aggancio per l’inizio del canto vero e proprio, ma possiamo ignorarla dal punto di vista esoterico? Non proprio.

In effetti troviamo una grande verità “pronunciata” da Dante, e cioè che tanto più si procede in un comportamento che si sa sbagliato, tanto sarà il malessere che ci avvolgerà.
Qui non si tratta di vendetta o minaccia, proviamo a immaginarlo con questo esempio: immaginiamoci di sostare in una casa sporca, malandata, con un cattivo odore. Non abbiamo voglia di mettere mano e sistemarla, perciò ci accomodiamo come se nulla fosse. Dopo un po’ di tempo ci abituiamo al puzzo e al disordine, tanto da non farci più caso. Ma più trascorriamo il nostro tempo in quella condizione di malessere, più rischiamo di beccarci qualche malattia seria.
Ecco quindi che la profezia è semplicemente un rapporto causa – effetto.

Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ‘l duca mio e trasse mee;

e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra’ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio,

perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’invidi.


Dante e Virgilio si allontanano da dove stanno, procedendo cautamente. Dante cammina lentamente, tenendosi saldamente con le mani sulle rocce.
Come spesso è accaduto, Dante ci prepara a ciò che vedremo: non sarà facile, visto che al solo ricordare gli riaffiora la sensazione di sofferenza provata in quel momento.
Non usa mezzi termini per dirci che ha cominciato fin da subito a frenare il suo intelletto, più di quanto abbia fatto prima, proprio per fare in modo che a guidarlo sia la virtù. Nel spiegare il perché di tale comportamento fa anche un riferimento astrologico: sono le stelle posizionate al momento della sua nascita (in questo caso la costellazione dei Gemelli) ad avergli concesso il bene della salvezza, quindi è giusto che lui le segua fedelmente.

C’è molto da dire, perciò scusateci se potremmo risultare superficiali o affrettati.
Lo abbiamo già visto in parecchi canti precedenti: la logica e la razionalità non sono gli unici a dover far parte di questo cammino, anzi. Bisogna che a guidarci sia la nostra parte spirituale, quella che osserva la realtà notando ciò che non è spiegabile nei fatti. Consigliamo la lettura del nostro articolo: “Misteri del femminile” per maggiori dettagli.

Ma come mai Dante vuole mettere a freno la parte egoica?

Ebbene, procedendo nel cuore dell’Inferno, come abbiamo già detto, troviamo quei peccati che sono più comuni in noi. In questo girone ci troviamo con i consiglieri fraudolenti con coloro, cioè, che hanno utilizzato i propri carismi e talenti per far prevalere una causa, un partito o un personaggio, anche a costo di rasentare la follia. Dante sa che se dovesse farsi comandare dalla logica potrebbe incappare in questo peccato, proprio perché ha lo stesso potere, la stessa indole di chi è qui condannato.
Sa la sua debolezza, ma sa anche che tale ombra è solo la conseguenza della luce (vi consigliamo la lettura di “Ombra e luce”) e, ben consapevole del suo tema natale, sa anche che ha le carte giuste per potersi salvare.
Segue la direzione della virtù, anche se questo vuol dire agire seguendo la strada più difficile. E proprio quest’ultimo tema sarà quello fondamentale del canto.

Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ‘l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’ e’ vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea.


Comincia la descrizione di questo luogo così angusto; Dante lo paragona al momento della sera, quando il sole smette di brillare nel cielo, facendo spazio al buio. Dobbiamo comunque pensare a un momento storico in cui non esisteva l
’illuminazione e  per questo motivo le lucciole brillando attorno e il contadino stanco dopo aver arato o vendemmiato i campi, lasciavano lo stesso quasi incantato.

Certo, non crediamo che Dante stia godendo a vedere delle fiamme illuminare lì attorno, ma di certo abbiamo ben compreso il senso.

E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ‘l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,

che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:

tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ‘l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.


Come per aumentare il senso di stupore scaturito dalla luce di quelle fiamme, Dante ci riporta all’immagine di Eliseo (discepolo e successore del profeta Elia) narrati nel Secondo libro dei Re, dove lo stesso guardava impotente Elia salire al cielo su di un carro di fuoco, trainato anch’esso da cavalli di fuoco.
E proprio come Eliseo poteva solamente guardare, così fa Dante. Sa che ogni fiamma nasconde un’anima, ma la stessa fiamma nasconde le loro sembianze umane.

Io stava sovra ‘l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.

E ‘l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso».

«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:

chi è ‘n quel foco che vien si diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu misto?».


Dante è sul ponte, sporto verso il basso e ci ricorda ancora una volta di come fosse ben saldo sulle rocce, perché altrimenti sarebbe potuto cadere.
Senza dover chiedere, Virgilio gli conferma che ogni fiamma è un’anima e a queste parole, Dante domanda come mai c’è una fiamma che ha in sé due fuochi.

Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;

e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.

Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta».


Virgilio risponde che la fiamma ha in sé Ulisse e Diomede che, proprio come nel caso di Paolo e Francesca, sono puniti insieme perché in vita hanno operato per il male insieme. Sono loro inganni come quelli del cavallo di Troia, della sottrazione ad Achille dell’amata Deidama e del furto della statua di Pallade. È come se Ulisse fosse stata la mente e Diomede il braccio, per questo sono inseparabili anche nell’eternità.

Ma come mai il fuoco?

Come l’acqua è simbolo di purificazione, ma ha altri significati: proprio come le anime che incontreremo, il fuoco da lontano dà la sensazione di ardore, sicurezza, rifugio; più ci avviciniamo, però, più vediamo che le fiamme consumano tutto ciò che incontrano. Il fuoco, poi, punta le sue fiamme verso l’alto, proprio come le anime in vita hanno avuto scopi molto più grandi di loro. Da lontano il fuoco dà gioia, allegria, da vicino può incutere malinconia e ferire.
Tenete ben a mente tutto ciò, perché lo ritroveremo nella fine che Dante ha dato a Ulisse.


«S’ei posson dentro da quelle faville
parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego
e ripiego, che ‘l priego vaglia mille,

che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!».

Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto».


Dante chiede, in maniera anche abbastanza insistente, a Virgilio se le due anime possono parlare e la sua guida acconsente, a patto, però che lui resti zitto.
Ulisse e Diomede, infatti, sono greci e per questo potrebbero risultare schivi – per superbia – nel parlare con Dante che appartiene ai latini.
Crediamo non serva spiegare il perché, invece, potrebbero parlare con gioia a Virgilio!

Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:

«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».


Virgilio si avvicina alla fiamma, parlando ovviamente al plurale, e implora i due di parlare con loro. Per farlo non utilizza delle moine, né fa dei complimenti alle anime, bensì fa notare di come lui abbia parlato delle loro gesta.

Già possiamo capire che a questo tipo di superbia non importa tanto l’essere riconosciuti per un motivo o per un altro, basta semplicemente essere ricordati per l’eternità. Possiamo biasimarli? L’immortalità è sicuramente ciò a cui tutti aspiriamo. È il motivo, spesso, che ci spinge a fare del bene, a fare gesti che possano essere ricordati.

E fare tutto ciò solo per un nostro tornaconto personale, non è forse un atto da consigliere fraudolente? Ecco che cominciamo a riconoscerci...

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.


La punta della fiamma più alta comincia a muoversi e da tale movimento Ulisse comincia a raccontare cosa lo ha portato qui.     
Facciamo attenzione, ricordiamo che tutto quello che verrà non è presente nell’Odissea, dove la storia si conclude con Ulisse tornato a Itaca felice e contento, abbracciato alla sua Penelope.

Dato che la profezia dell’indovino Tiresia, contenuta nell’undicesimo libro dell’Odissea, parla di una morte “ex halos” (dal mare, o lontano dal mare), molti autori successivi hanno potuto dare libertà alla propria creatività immaginando una possibile fine dell’eroe greco.
Dante è tra questi, ma possiamo ricordare anche Plinio il Vecchio, Pascoli (ne “L’ultimo viaggio”, nei Poemi conviviali) e Valerio Massimo Manfredi in “L’oracolo”.

Ecco quindi che Ulisse comincia a raccontare di come, una volta tornato a Itaca, neanche l’amore nei confronti del figlio Telemaco, né quello verso il padre Anchise, né ancora quello verso la moglie, lo hanno saputo tenere calmo e tranquillo.
Voleva divenire il massimo conoscitore del mondo, il maggior esperto dei vizi e delle virtù umane.
Decide quindi di radunare i suoi fedeli compagni, di prendere una piccola nave e mettersi in viaggio verso il mare aperto. Passa così le coste della Spagna, del Marocco e della Sardegna.

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi

acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.

‘O frati’, dissi, ‘che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza’.

Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.


Giunti alle Colonne di Ercole – lo Stretto di Gibilterra, dove all’epoca si pensava finisse il mondo – Ulisse e i suoi compagni sono ormai molto vecchi, tanto che Dante utilizza la parola “tardi”. Possiamo quindi considerarli in una fase della vita dove difficilmente potevano badare a loro stessi.
Questo, però, non frena Ulisse dal volere attraversare il punto critico e per convincere, o per dare più forza agli uomini, dà inizio a un discorso dove fa testimonianza di tutta la sua arte oratoria. Esalta tutto il cammino intrapreso fino a quel momento, facendo notare quanti pericoli hanno già passato, fino ad arrivare ai confini del mondo. Ormai sono vecchi, non hanno proprio più nulla da perdere e basta, quindi, solo un piccolo passo per adempiere un destino glorioso, andando dove nessuno aveva mai osato e poter scoprire quello che nessuno ancora sa. E dopotutto, che sarà mai un passo paragonato a quelli fatti in precedenza?
Ulisse dice loro che non sono stati creati per vivere come animali, ma per inseguire la virtù e la conoscenza e a quell’ultima frase l’entusiasmo si impossessa di tutti quanti, che gioendo impetuosi, procedono in temerari.

Avete fatto attenzione a un particolare non da poco? Tranquilli, neanche noi ci eravamo subito arrivati. Ulisse, mentre racconta l
’accaduto lo definisce folle”. Ora che è all’Inferno, ora che sta pagando le sue colpe, in un certo senso se ne pente. Vedremo più in là che anche in Purgatorio e Paradiso ci sono i peccatori, e allora perché a Ulisse è toccata la dannazione? Probabilmente perché si pente solo della sua fine, e non del resto...

Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ‘l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam de l’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.


Dal discorso di esortazione sono passati cinque mesi e dopo aver navigato per il mare aperto, giungendo all’Equatore, Ulisse e i compagni scorgono una grande montagna, anche se ancora non ben visibile dato il buio. Nonostante questo, però, già si rendevano conto che era più alta di tutte quelle che avevano visto fino a quel momento.

Altro dettaglio da osservare con attenzione: per tutto il racconto di Ulisse è sempre stata notte.
Dante ci fa intendere che quando pecchiamo di superbia, volendo sapere più di quanto ci è dovuto, noi stiamo agendo nel buio più totale della nostra anima, scambiando le illusioni per realtà.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.


E difatti anche Ulisse e i suoi compagni si rallegrano di aver trovato la terra, ma subito si ricredono perché da quella stessa montagna parte un turbine che colpisce la parte anteriore della nave, facendola girare tre volte in un unico vortice, fino ad arrivare al quarto giro, quello fatale che sollevando la poppa, fa naufragare l’imbarcazione portando tutti alla morte.

Quella montagna è il monte del Purgatorio, ma quello lo vedremo meglio nel prossimo canto.
Ciò su cui dobbiamo porre il nostro sguardo – sempre per osservare e mai per giudicare – è che senza mettere la virtù al primo posto, non possiamo procedere al sicuro.
Come abbiamo già detto in precedenza, è umano voler aspirare a grandi traguardi e di certo questa è anche cosa buona e giusta. Più volte, sia in questa sezione che nelle altre, vi abbiamo parlato della parabola dei talenti, proprio perché il senso di ogni vita è quello di moltiplicare le fortune che si hanno. Ma vedete, per farlo bisogna sempre affidarsi all’anima, mai all’Ego.

Quando prima vi abbiamo detto che Dante per primo aveva paura di poter incappare in questo peccato è perché aveva molto potere e carisma dalla sua, anche lui avrebbe potuto procedere nella vita facendo i propri interessi.     
Quando, quindi, vogliamo aspirare a qualcosa che agli altri è precluso dobbiamo porci un grande, immenso interrogativo: perché? Forse è un po’ come vi abbiamo spiegato in “Dare per ricevere”: ogni dono che ci è dato deve essere messo a disposizione per gli altri, non solo ed esclusivamente per noi stessi.

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