lunedì 12 aprile 2021

#Costume&Società: La strumentalizzazione del dolore

Era il 1° settembre del 2004 quando, a Mazara del Vallo (Sicilia), la piccola Denise Pipitone di neanche quattro anni sparì misteriosamente, mentre stava giocando vicino a casa della nonna materna. Fu da subito un caso mediatico. All’inizio venne indagata la sorellastra e si montò tutta una storia sul rapimento, parlando di gelosia e che fosse stata affidata a un gruppo di persone rom. Dopo anni di processi e di shitstorming mediatica, la sorellastra di Denise venne assolta. Ma allora che fine ha fatto la bambina?
Le segnalazioni nel corso degli anni non sono mancate, ma da anni ormai la televisione aveva distolto l’attenzione sulla sorte della piccola Denise, entrata quindi a tutti gli effetti nella lunga lista di bambini scomparsi e di casi irrisolti della storia italiana, finendo quindi abbandonata nel dimenticatoio. Per diciassette lunghi anni, della bambina non si seppe più nulla, fino a che su tutte le reti italiane il marzo scorso non ci fu il colpo di scena: un’infermiera russa aveva segnalato a “Chi l’ha visto?” di aver notato una forte somiglianza tra Denise e Olesya Rostova, cittadina russa in cerca della mamma. Piera Maggio, la mamma di Denise, non ha mai perso le speranze di ritrovare sua figlia e questa nuova pista russa ha riacceso la sua speranza.

Ed eccoci, però, al tasto dolente: certo, le somiglianze tra Olesya e Piera Maggio non mancano, malgrado le prime foto della russa mostrino una differenza con quelle di poco antecedenti alla scomparsa di Denise. Ora, noi di 4Muses non vogliamo avanzare alcuna ipotesi sulla somiglianza delle due bambine o su quelle dei loro genitori, ma vogliamo parlarvi della strumentalizzazione che sta facendo lo stato russo. Si sa da qualche giorno che i rapporti diplomatici tra Italia e Russia non sono dei più rosei a causa del caso di spionaggio di Walter Biot. La tv russa “Pust Govoryat”, che dovrebbe essere l’equivalente del nostro “Chi l’Ha visto?” ma si è dimostrato molto più simile a “Pomeriggio Cinque”, sta portando la vicenda ai limiti dell’assurdo. I legali della Maggio hanno da subito chiesto un test del DNA, l’unico e attendibile, ma la tv russa, che detiene l’esclusiva sul caso, sembra voler portare avanti la vicenda un pezzetto alla volta, senza mai lasciare i telespettatori pienamente soddisfatti, ma bisognosi di informazioni per sapere se il caso ha trovato la sua soluzione. Non potendo, quindi, disporre del DNA, i legali hanno allora chiesto il gruppo sanguigno di Olesya, perché in questo modo si farebbe una prima scematura sull’effettiva identità della ragazza. La giovane russa, però, non ha avuto il permesso dal programma russo di rilasciare alcuna intervista, alcuna rivelazione, se non durante il programma andato in onda il 7 aprile.

Che si tratti di Denise o meno, una cosa è certa: il programma russo sta strumentalizzando il dolore di una madre per fare ascolti. E ci sta riuscendo.

Il dolore in tv, soprattutto in italia, è stato sdoganato ben quaranta anni fa, con l’episodio di Alfredino Rampi, la tragedia di Vermicino. Il giorno in cui il bambino finì in un pozzo, fu la prima volta in cui il dolore di una famiglia e il tentativo di salvare un bambino, divenne un evento mediatico alla stregua di una serie tv. I telespettatori, su reti unificate, potevano sapere minuto per minuto gli sforzi che si stavano facendo per salvare il piccolo, mentre gli inviati intervistavano costantemente la gente accorsa per dare una mano – o semplicemente per assistere. Da lì, informazioni e fiction si unirono, così che lo spettatore partecipasse al dolore per la vita umana. Con Denise non fu diverso, in quanto le immagini della bambina vennero mandate in televisione così tante volte e si aprirono così tante interpretazioni sulla sua scomparsa che nessuno ha avuto bisogno di un recap di ciò che era successo a Mazara del Vallo.

Per la storia recente della tv italiana (con i casi che hanno suscitato di più l’appetito macabro degli spettatori) non c’è da stupirsi se ricordiamo senza problemi il caso di Vermicino, Denise Pippitone, Sara Scazzi, Cogne e quant’altro, anche se sono accaduti quaranta o dieci anni fa. La televisione ha talmente reso quel dolore di perdita o scomparsa tangibile, al punto da rendere un caso di cronaca una fiction, con titoloni di colpi di scena con il solo scopo di crearne un lievito per gli ascolti. La tv ha creato gialli televisivi che creano un’aspettativa del pubblico, un divulgare informazioni più o meno personali, reali o solo ipotizzate da non lasciare gli inquirenti al loro mestiere ma, anzi, caricandoli di una pressione che può determinare anche la compromissione di una carriera lavorativa. Ormai reality e realtà si confondono, con una macchina ben oliata che sforna scoop a discapito di chi la sofferenza la sta vivendo davvero sulla propria pelle. Riaccendere l’attenzione del pubblico su Denise è servito a mostrare quanto la strumentalizzazione del dolore trasformi lo stesso in un format per fare share. L’esame del DNA o la semplice rivelazione del gruppo sanguigno di Olesya avrebbe permesso di chiudere da subito la questione, ma, anche se ci troviamo ad additare la tv russa di star portando avanti una pagliacciata in cui il dolore viene usato solo per catturare gli ascolti, in realtà noi in Italia non siamo da meno. Ma siamo noi i colpevoli, siamo noi che “vogliamo” questa spettacolarizzazione. Lo volevamo con le Torri Gemelle, l’attentato dell’11 settembre, dove vedevamo allo sfinimento l’aereo che si abbatteva sulla prima torre e i disperati che cercavano di salvarsi buttandosi di sotto. Siamo noi che vogliamo sapere se Olesya è Denise, anche se la questione non ci riguarda affatto. Siamo noi che vogliamo vedere queste immagini in tv, perché i programmi che abbiamo li vogliamo, anche se spesso li bistrattiamo. Altrimenti faremmo una cosa soltanto, se davvero non volessimo questa strumentalizzazione del dolore: spegneremmo la tv.

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