martedì 13 luglio 2021

#Cinema&SerieTv: A Quiet Place II - Recensione

Arrivato in sala il 24 giugno 2021, noi di 4Muses non possiamo trattenerci dal recensire questo piccolo capolavoro dell’horror; soprattutto per via delle peripezie che lo hanno coinvolto durante la sua uscita. A Quiet Place II ha, infatti, risentito della chiusura delle sale arrivando solo nel post pandemia anche qui in Italia, confermandosi, comunque, un piccolo campione di incassi al botteghino. Nel MustToWatch, pubblicato qualche giorno fa, abbiamo cercato di parlarvi dei pregi della prima pellicola, rinfrescandoci un po' la memoria in vista proprio di questa recensione. 

A Quiet Place I, approdato in sala nel 2018, raccontava gli eventi che avevano sconvolto e coinvolto la famiglia Abbott, dopo un’invasione aliena che aveva devastato la loro routine quotidiana. Abbiamo, dunque, avuto modo di vedere gli Abbott lottare per la propria sopravvivenza; cercando di sopperire alle perdite che hanno subito. 

A Quiet Place II si propone al suo pubblico come un midquel (un film che narra sia gli eventi precedenti che quelli successivi al primo arrivato in sala), perché la narrazione viene sia ripresa da dov’era stata interrotta, ma attraverso un flashback narra anche gli eventi del giorno 0, quando l’invasione ebbe inizio.  Ciò ci permette di conoscere il personaggio maschile che vediamo campeggiare sulla locandina del film: Emmett interpretato da Cillian Murphy; uno degli amici di famiglia che è riuscito a sopravvivere all’invasione non senza pagarne lo scotto.
Dopo il flashback-prologo veniamo riportati al 474° giorno dall’invasione aliena, il giorno in cui Evelyn (Emily Blunt) deve cercare di salvare il salvabile dopo aver nuovamente imbracciato il fucile e chiuso il neonato Abbott all’intero della sua scatola insonorizzata.

Quando si è figli di un successo conclamato, come lo era stato A quiet place I, si incorre, molto spesso, nel rischio di stra-fare con la seconda pellicola. Un rischio che John Krasinski ha comunque deciso di correre, creando una storia che affonda il suo funzionamento sulla sua coerenza, mostrando una saggezza narrativa da non sottovalutare. Il regista ha, infatti, evitato una di quelle caratteristiche che spesso contamina il cinema hollywoodiano, ovvero il pensare che se qualcosa è piaciuta allora bisogna farla due volte più grande. Ciò, nella stragrande maggioranza dei casi, si evolve in un grande tradimento di intenti finendo, così, col non rispettare ciò che si era creato col primo film. E di saghe citabili in tal senso la cinematografia americana ne è piena. Krasinski, invece, mantiene il suo universo coerente e lo amplifica senza eccedere in virtuosismi narrativi o cadere in banalissimi cliché che avrebbero reso questo secondo volume davvero molto banale.

Si è riusciti, mantenendo l'aspetto minimale che aveva contraddistinto "un posto tranquillo", a espanderne il mondo, arricchendolo con nuovi eventi. A Quiet Place II, come il suo precursore, segna quasi una fine per la storia dell'umanità decimata, ma riesce anche a lasciarsi aperto a possibili interpretazioni o possibili capitoli successivi. 

Tutta questa forza narrativa nasce da uno stratagemma che, a livello direzionale, funziona perfettamente perché trasforma il film in un piccolo grande concerto che lavora in sinergia, giocando con la contemporaneità e i parallelismi delle azioni. La protagonista, infatti, non è solo Evelyn; sarebbe stato facile rimettere tutto in mano a una donna che ha appena partorito per poter creare una storia che potesse avere presa sulla rinnovata sensibilità del pubblico. Ma qui si opera una scelta più sottile e intelligente, perché si suddivide la narrazione su storyline differenti. Tutti i volti che sono sulla locandina sono i protagonisti dell'azione, proprio perché essi sono tessere di un macro-mosaico che compone l'universo narrativo di A Quiet Place.
Se Evelyn Abbott, dopo aver partorito e perso figli e marito, avesse imbracciato il fucile e l'impianto cocleare della figlia, la costruzione dell'eroe che ne sarebbe emersa sarebbe stata forzata e fuori dalle righe. Dividere, invece, le responsabilità e le scelte da dover prendere tra i vari membri della famiglia, ha permesso a Krasinski di giocare con l'emotività dello spettatore, spingendolo a trattenere il fiato per poter cercare di capire chi si salverà o no. Abbiamo, ovviamente, avuto modo di vedere la forza e la resilienza di una madre che lotta contro tutto e tutti per cercare di far sopravvivere quel che le è rimasto, ma è molto più interessante vedere come i figli ripercorrano le orme dei genitori e vengano mossi da quegli esempi che li hanno cresciuti. Ammettiamolo, vedere Regan che si comporta come avrebbe fatto suo padre è sicuramente un ottimo omaggio a un personaggio che abbiamo avuto modo di salutare alla fine del primo film. 

A nessuno di loro viene lasciato il tempo di poter elaborare l’ennesima perdita e tutti devono continuare a vivere cercando di non perdere chi gli è rimasto. Attraverso gli occhi di Evelyn è, dunque, possibile avvertire il pericolo, l’impotenza e la necessità di dover cercare la soluzione più pratica per poter cercare di mantenere in vita i propri figli.

Senza fare altri spoiler, è interessate proprio la visione di insieme che Krasinski dimostra di avere con questo film perché, appunto, dà la possibilità di conoscere e di legarsi alle storie dei vari personaggi usando punti di vista differenti che riescono a dare una più ampia visione degli eventi. Non esiste un narratore unico, non esiste un eroe unico, ma in realtà sono tutte tessere di un unico puzzle che molto spesso si muove in sincronia nonostante la distanza fisica. È apprezzabile questa attenzione ai dettagli, perché riesce a costituire un elemento emozionale molto forte. La paura, in questo horror non viene data dai mostri in sé, ma viene costruita dal ritmo con cui la storia procede. L’assenza di suono, nella maggior parte delle scene, gioca con l’emotività dello spettatore, creando quegli attimi di stasi che poi vengono perfettamente rotti nel momento in cui il pericolo è tangibile.

L’elemento centrale, dunque, diviene l’assenza declinata nelle sue diverse forme: l’assenza di coraggio, l’assenza di suono, l’assenza di umanità. Tutti elementi che sono riconducibili a fattori più o meno fisici all’interno della scena. Basti pensare a quanto questo film, nonostante abbia alla base l’idea della necessità di  assenza di suoni, ne sia pieno tanto da inebriare i sensi e appunto costituire quell’elemento in grado di giocare con l’emotività dello spettatore. La colonna sonora, insieme alla recitazione degli attori, è infatti una delle cose che impatta maggiormente nella struttura della narrazione, perché fornisce quell’elemento emozionale fondamentale per poter riuscire a percepire il pericolo che sentono sulla pelle i nostri protagonisti. L’assenza delle parole, invece, è essenziale e mostra il reale talento da sceneggiatore di Krasinski che, del resto, aveva già mostrato di possedere proprio con il primo film.

A Quiet Place II è una chicca per gli amanti dell’orrore, non spinge a far saltare sulla poltrona - anche se ci riesce in più di un’occasione -, ma cerca di far emozionare il suo pubblico giocando proprio con l’umanità dei suoi personaggi. Ci si preoccupa per loro e automaticamente ci si spaventa in un modo molto più profondo di quanto possa avvenire con i Jump Scare. È un film che riesce nel suo intendo e continua a forgiare le basi per un suo universo. Krasinski non eccede, si muove con equilibrio sia nella forma che nella realizzazione, non alterando ciò che aveva creato, ma amplificando, spingendo lo spettatore a ulteriori dubbi una volta uscito dalla sala.
Una di quelle pellicole che non ha bisogno dei classici e oltre modo sfruttati “spiegoni narrativi”, non è necessario che siano le parole dei protagonisti a raccontare il mondo di A Quiet Place, ma ci pensano le immagini scelte sapientemente dallo stesso regista. I dettagli fanno la differenza e questo rende la duologia completa, nonostante resti aperta a ulteriori indagini e approfondimenti.

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