lunedì 13 settembre 2021

#DivinaCommedia: Canto V

Gli articoli sulla Divina Commedia sono sempre così lunghi che cerchiamo di fare l’introduzione il più concisa possibile, per non farvi perdere tempo. Vi ricordiamo solamente che analizziamo tutti i canti dal punto di vista esoterico. Con questo non vogliamo sminuire ogni nozione appresa nel nostro cammino scolastico, al contrario. Ogni chiave di lettura va più che bene, ed è strettamente legata al livello di Consapevolezza che abbiamo.

Siamo qui per dirvi, però, che c'è anche il punto di vista esoterico. Non deve essere ignorato, ma soprattutto non deve andare perduto.

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.

Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata

Vede qual loco d’interno e da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.

Nella sua introduzione Dante comincia a darci un’idea di quelli che sono i gironi infernali: più scendiamo, più proviamo dolore. All’entrata troviamo Minosse, tanto famoso nella mitologia. È lui che, ascoltando le anime nei loro racconti, come in una sorta di confessione spirituale, decide in quale girone mandarli. 

Ma perché proprio Minosse? Perché secondo la mitologia classica, oltre a essere il re di Creta, ne era anche il grande legislatore. Ha quindi mantenuto il ruolo di pretore per tutta l’antichità, tanto che sia Omero che Virgilio lo descrivono come giudice delle anime. Come spiegato già nel IV Canto, Dante si mette con estrema umiltà nel gruppo dei grandi poeti, per questo ne mantiene il ruolo.  

“O tu che vieni al doloroso ospizio”,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,

“guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!”.
E ‘l duca mio a lui: “Perché pur gride?

Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare”.

Minosse, accorgendosi del corpo tangibile di Dante, e riconoscendolo quindi come vivo, gli urla rabbioso di non fidarsi della sua guida, perché attraversare l’Inferno è terribile. Virgilio, però, gli risponde a tono, pur rimanendo calmo e fermo. Gli domanda perché stia gridando, visto che non può impedire il percorso di Dante, essendo voluto da Dio.

Vi consigliamo la lettura dell'articolo Nel nome di Dio, prima di procedere ulteriormente.

Fermiamoci a riflettere: Minosse è la nostra parte rabbiosa, animalesca. La parte che ci urla di lasciar perdere una qualsiasi cosa quando la vediamo difficile. Può essere dentro di noi, ma anche esterna. Quante volte, infatti, ci siamo imbattuti in una persona arrogante, dal tono di voce così alto, da farci sentire schiacciati, impossibilitati a una replica?

Dante rimane in silenzio, ma Virgilio, che ha ben chiaro cosa sia l’Inferno, risponde del tutto neutro: “Perché stai urlando? Non puoi evitare ciò che è stato comandato dal Divino”.Quando abbiamo attraversato l’Inferno, riconosciamo la prepotenza, madre di tutte i peccati (per questo Minosse può giudicare le anime infernali: conoscendo ogni trasgressione, sa dove collocarle) nascosta dietro i modi brutali delle persone.

Ora, per peccati non intendiamo di certo il disubbidire a determinati comandamenti. L’etimologia della parola "peccato" deriva dalla radice "khaw-taw": "mancare", "sbagliare il bersaglio", inciampare". Pecchiamo, quindi, ogni volta che agiamo senza uno scopo ben preciso, il più delle volte quando percorriamo una via buia. Si pecca quando non c’è la luce della consapevolezza. Finché stiamo nell’oscurità, vivremo nel nostro Inferno personale. Quando cominceremo a prendere coscienza di ogni nostra azione, passiamo al Purgatorio, che vedremo poi.  

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.

Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.

Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.

Dante descrive l’ambiente come pervaso da un forte vento che fa muovere gli spiriti ed è proprio lui che decide dove mandarli. Il vento, nel significato esoterico, è una forza vitale, incontrollata, che spinge gli uomini a suo piacimento. Ecco perché Dante lo mette nel girone dei lussuriosi. Ma è anche vero che il vento è un’energia divina. Ricordiamoci che il messaggio esoterico della Divina Commedia non è: “Tu hai commesso questi peccati, e vivrai qui in eterno”, ma: “Tu hai commesso questi peccati, ma ti sto dando la chiave per raggiungere il Paradiso”. Finché restiamo oziosi e ce la prendiamo con l’esterno, viviamo all’Inferno. Ci condanniamo da soli, bestemmiamo la volontà Divina, non accorgendoci che ogni cosa ci viene davanti è solo per nostro volere.

Che la ragion sommettono al talento”. Dante è stato così chiaro, eppure ancora oggi c’è chi cambia il termine “talento” con "istinto". Può anche andar bene, ma il talento rimane talento. Quando crediamo più alla mente che vuole sottomettere ciò che invece dovremmo tirare fuori e manifestare, stiamo proprio in questo girone. 

Andando avanti nei versi, incontriamo diverse anime tra le quali: Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride, Tristano… cosa hanno in comune tutti loro? Una vita passata sì facendo grandi gesta, ma l’"amore" li ha sempre condotti allo smarrimento, alla morte. Perché? A questa domanda risponderemo più in là.  

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense”.

Vi starete di certo chiedendo: perché se agiamo per amore, siamo condannati all’Inferno? Ed è una domanda giustissima, che ha solo una risposta: se stiamo all’Inferno non stiamo agendo per amore.

Conosciamo tutti la storia di Paolo e Francesca, e cosa è nascosto (ma non tanto) dalle loro parole? l’amore di cui parlano, non è amore, ma possessione. “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende” l’amore che rapisce un cuore, può essere vero amore? “prese costui de la bella persona/che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende”. Paolo non si è innamorato di Francesca per la sua anima, ma solo ed esclusivamente per il suo corpo. Ora, ovviamente Dante non ha scritto tutto ciò nel 2021, quindi andiamo oltre: quando amiamo solo sul piano materiale, ce la stiamo raccontando. Con questo non vogliamo bandire il sesso, anzi. Vedremo infatti di come in Paradiso ci siano prostitute e persone che hanno dedicato la vita al piacere fisico. Ancora una volta la cosa più importante è la consapevolezza.  

Noi aleggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”.

Cosa notiamo dalla spiegazione su come i due si siano innamorati? Che non si sono presi alcuna responsabilità. Non hanno detto: “Sì, ci siamo conosciuti, avvicinati e innamorati”, ma hanno come “incolpato” la storia tra Lancilotto e Ginevra. Quante volte ci siamo detti: “Mah, non so come sia potuto capitare, sarà stata l’atmosfera, le parole…”. La colpa, insomma, è sempre dell’esterno, e possiamo vederlo anche senza la sfera sessuale. Quante volte deleghiamo la colpa agli altri? “Ma non sono io, sono gli altri che mi fanno stare in questo modo”.

Quante volte rimaniamo in situazioni che ci feriscono, perché non riusciamo a capire che siamo noi per primi a dover andare via? Paolo e Francesca non sono destinati a restare uniti per amore, anzi. Sono uniti perché non si sono presi carico della loro fetta di responsabilità. Nei nostri giorni sappiamo quanto sia importante ripeterci che non abbiamo bisogno di nessuno per essere completi, siamo già completi. Ed è verissimo. Come possiamo, quindi, vedere in Paolo e Francesca l’amore puro?

Sono dipendenti l’uno dall’altro, e hanno agito manipolati da una storia che hanno letto. Proprio come un burattino che si muove comandato dal burattinaio. Così come loro, anche noi, quando siamo dipendenti dall’altra persona, quando proviamo sofferenza se non la vediamo per un po’ di tempo, quando deleghiamo la causa di una nostra sofferenza a qualcosa di esterno alla coppia (“non sono io, non è lui/lei, è che viviamo distanti/è che abbiamo problemi economici/è che ci sono troppe persone che si mettono in mezzo…”) viviamo nell’amore infernale. Non amiamo, siamo dipendenti dal sentimentalismo, ed è molto diverso.  

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.

E caddi come corpo morto cade.

Ricordiamo sempre che l’intero viaggio di Dante è il cammino iniziatico che ognuno di noi prima o poi affronta. Vi ricordiamo anche il simbolismo dietro lo svenimento: l’apprendere e integrare parti di noi.

Morte-rinascita è un ciclo che si ripete ogni volta che riusciamo a essere padroni di un nostro contenuto interiore. Dante ha quindi capito perfettamente la differenza tra amore vero e amore dipendente, ha capito che bisogna attribuirsi la volontà di ogni azione, per questo sviene. Ha compreso una parte di sé ed è pronto, quando si sveglierà, per andare avanti. Nel Canto VI troveremo i golosi.

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