venerdì 25 agosto 2023

#DivinaCommedia: Canto XXVIII

Ritratto di Giovanni Stradano
Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.

Oggi analizziamo il ventottesimo canto dell’Inferno. Ci lasciamo così alle spalle i consiglieri fraudolenti, per incontrare le anime che in qualche modo hanno seminato discordie e scismi. Ci troviamo faccia a faccia con Mamometto, Pier da Medicina, Mosca de’ Lamberti e Bertran de Born, più altri numerosi personaggi quanto numerose sono le anime condannate in questa nona bolgia.
Lo diciamo tempo: stiamo nella parte dell’Inferno più popolata, proprio perché i peccati qui commessi sono all’ordine del giorno per tutti noi. Possiamo già porci qualche domanda: quanto spesso creiamo divisioni, con litigi o pettegolezzi? Quanto spesso tendiamo a mettere la pulce nell’orecchio di qualcuno, sicuri che la nostra verità sia l’unica e sola? Questo canto ci porta quindi a riflettere…

Al solito vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su se stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi. 

Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?

Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
ch’hanno a tanto comprender poco seno.

S’el s’aunasse ancor tutta la gente
che già, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente

Per li Troiani e per la lunga guerra
che de l’anella fé sì alte spoglie,
come Livïo scrive, che non erra,

con quella che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie

a Ceperan, là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo
dove senz’arme vinse il vecchio Alardo;

e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, d’aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.


I primi versi servono a Dante per preparare lo spettatore all’immane scempio che si trova davanti. Nessuna parola, però, può riuscire a descrivere a meglio ciò che il Poeta ha visto, quindi il lettore può solo immaginarlo, pur sapendo che non si avvicinerà mai alla realtà dei fatti.
Dante dice che neanche se si mostrassero pubblicamente tutte le vittime e i feriti delle molteplici guerre che hanno investito il sud Italia si potrebbe mai dare l’idea di quanto ha visto.

Capiamo così che le anime devono suscitare uno spettacolo a dir poco orrendo, ma come mai non potremmo mai immaginare di vederlo?

Probabilmente perché siamo di fronte a un peccato che non sembra essere poi così grave. Daremo poi più dettagli, ma fermiamoci un attimo e cerchiamo di rispondere alle domande poste nell’introduzione.
È normale per l’essere umano avere sentimenti di giudizio o criticare chi la pensa diversamente da noi. È una sorta di meccanismo di difesa, visto che tendiamo a circondarci di persone simili alla nostra natura e Dante già lo spiega nel IV canto, quando incontra altri poeti. Per questo quando parliamo male di qualcuno, o quando lo critichiamo assieme a nostri amici, non solo non ci accorgiamo che stiamo creando divisioni e scismi, ma anzi, pensiamo di stare nel giusto e che dopotutto non c’è nulla di male, soprattutto se gli altri la pensano esattamente come noi. Siamo davvero sicuri, o stiamo semplicemente seguendo la via più facile? È infatti più facile agire così che cercare un punto di incontro con un pensiero opposto al nostro, ma andiamo avanti…

Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ‘l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi e con le man s’aperse il petto,
dicendo: «Or vedi com’io mi dilacco!

vedi come storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.


La prima anima che ci descrive Dante è totalmente squarciata dal mento in giù. Il Poeta può vedere l’interno dei suoi organi e si sofferma su quelli più putridi, proprio come le budella e lo stomaco che penzolano all’ingiù. Lo spettacolo non deve essere piacevole, e l’anima sembra accorgersi del volto schifato di Dante, perché lo sfida poco dopo, aprendosi ancora di più lo squarcio nel petto e dicendogli: “Guarda ora come sono lacerato! Guarda come Maometto è mutilato”. Ed è questo il modo con cui ci viene presentato il fondatore dell’Islam. Davanti a lui, in lacrime, c’è anche il genero e suo successore Alì, con solo il volto tagliato dal mento alla fronte.

Inutile spiegare il perché siano stati messi all’Inferno: Dante, infatti, sottintende un qualcosa che diverrà più concreto alla fine, e cioè l’importanza dell’unità (sociale, politica e religiosa) anche quando ci sono in ballo idee differenti. Siamo ancora lontani due secoli dallo scisma anglicano e protestante, ma siamo vicinissimi storicamente dalla data dell’ultima crociata, avvenuta nel 1272. Essendo la Commedia ambientata nel 1300, sono passati solo ventinove anni dagli scontri sanguinari delle due divisioni, e anche se Dante non vi ha mai preso parte – aveva sette anni – dobbiamo pensare che di sicuro è cresciuto col vedere l’Islam come una religione antagonista.
Per questo dobbiamo dargli onore Poeta, perché non condanna la religione o il credo diversi, bensì l’atto di creare guerre e odio.

Un diavolo è qua dietro che n’accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,

quand’avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
prima ch’altri dinanzi li rivada.

Ma tu chi se’ che ‘n su lo scoglio muse,
forse per indugiar d’ire a la pena
ch’è giudicata in su le tue accuse?».


Maometto descrive la pena che tocca ai dannati: un diavolo ha il compito di squarciare le anime ogni volta che queste passano davanti a lui. Loro, poi, sono costrette a girare attorno alla bolgia e quando stanno a pochi metri dal demone, le loro ferite si rimarginano, giusto in tempo per essere di nuovo lacerate. Probabilmente è quello che accade a noi tutti quando commettiamo sempre lo stesso peccato: non ricordiamo più quanto siamo stati male dopo.
L’anima non prosegue oltre, perché – come tutte quelle passate – è curiosa di sapere come mai Dante, che scambia per dannato, non va a prendersi la sua pena.

«Né morte ‘l giunse ancor, né colpa ‘l mena»,
rispuose ‘l mio maestro, «a tormentarlo;
ma per dar lui esperïenza piena,

a me, che morto son, convien menarlo
per lo ‘nferno qua giù di giro in giro;
e quest’è ver così com’io ti parlo».

Più fuor di cento che, quando l’udiro,
s’arrestaron nel fosso a riguardarmi
per maraviglia, oblïando il martiro.

«Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedrà il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,

sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve».

Poi che l’un piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.


Virgilio prende parola e spiega che Dante non è né morto, né colpevole di qualcosa; deve semplicemente attraversare tutto l’inferno ed è per questo che lui, essendo morto, lo accompagna. Tutte le anime lì accanto, che sono più di cento, si fermano improvvisamente, rimanendo meravigliate, dimenticando anche solo per un istante il loro dolore.
Maometto, invece, mantiene la freddezza e prende la palla al balzo: se Dante è vivo, vuol dire che tornerà nel mondo dei vivi, per questo spera riporti un messaggio a fra Dolcino per fare in modo che i novaresi non vincano contro di lui.

Diamo una breve spiegazione: fra Dolcino (1250 circa – 1307) era un predicatore che si batteva per il cambiamento della Chiesa. A fine XIII secolo si unì al gruppo degli Apostolici (simile all’ordine francescano: chi abbracciava il loro modo di vivere doveva farlo in assoluta povertà, non doveva avere fissa dimora e vivere solo il presente. Non era però necessario prendere i voti), per poi divenirne capo. Nel 1303 si trovò nei pressi del Lago di Garda, dove continuava con il suo lavoro spirituale. Lì incontrò Margherita Boninsegna, divenuta sia sua sorella spirituale che amata. I due cominciarono ad aggiungere nuovi ideali, tanto che il movimento prese il nome di dolciniano.     
Per questioni di spazio non possiamo elencarvi tutti i suoi punti, vi basta sapere che volevano abolire la gerarchia ecclesiastica, riportando la Chiesa alle sue origini; in più volevano eleminare il feudalesimo per creare una nuova società più egualitaria, con parità di genere. Tutto ciò è purtroppo ancora considerato da folli, figuriamoci ai tempi…

Anche se nella teoria gli ideali non erano così distanti da quelli cristiani, il loro modo di accusare la Chiesa, più dedita al potere che ad altro, li fece risultare come eretici, così l’Inquisizione li condannò al rogo nel 1307. Lui morì a Vercelli, lei a Biella; entrambi dopo lunghi periodi di torture.

Dato che i dannati all’Inferno possono vedere solo il passato e il futuro, Maometto prova così a salvare il destino di Dolcino e questo ci conferma, dopotutto, che ogni Credo ha a cuore il benessere dell’umanità e come obiettivo quello di creare una società migliore, dove tutti si supportano e si amano a prescindere dalle divisioni illusorie.

Dopo la profezia/consiglio, Maometto è costretto a proseguire il suo eterno cammino. 
 
Un altro, che forata avea la gola
e tronco ‘l naso infin sotto le ciglia,
e non avea mai ch’una orecchia sola,

ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,
ch’era di fuor d’ogne parte vermiglia,

e disse: «O tu cui colpa non condanna
e cu’io vidi in su terra latina,
se troppa simiglianza non m’inganna,

rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina.

E fa sapere a’ due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l’antiveder qui non è vano,

gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d’un tiranno fello.

Tra l’isola di Cipri e di Maiolica
non vide mai sì gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica.

Quel traditor che vede pur con l’uno,
e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di veder esser digiuno,

farà venirli a parlamento seco;
poi farà sì, ch’al vento di Focara
non sarà lor mestier voto né preco».

Al solito, per un peccatore che va, un altro ne viene. Ora stiamo davanti al volto squarciato di Pier da Medicina, privo anche di un orecchio, la cui vita è andata del tutto dimenticata ai giorni nostri. Gli studiosi antichi, però, lo ricordano come una persona che si è arricchita creando discordie nei pressi di Bologna. Il Benvenuto conferma che Dante lo abbia conosciuto proprio quando fu da lui ospite. Non che serva, visto che nella Commedia è Pier stesso a riconoscere il Poeta.

Pier da Medicina fa notare, parlando da un buco nella gola, che tutte le altre anime sono meravigliate quanto il visitatore di ciò che stanno vedendo, ed è come se arrivati a questo punto siano proprio i nostri peccati a mostrarsi stupiti quando li riconosciamo. Ammettiamo che ancora non siamo arrivati a provare questa sensazione, forse, quindi non possiamo descrivervela più approfonditamente.

L’anima dannata comunque non perde tempo e anche lei vuole mettere in guardia due persone che sono ancora vive e per farlo utilizza Dante come messaggero. Veniamo così a sapere che Guido del Cassero e Angiolello da Carignano saranno uccisi da Malatestino I Malatesta, anche se ai giorni nostri non vi è alcuna traccia di questo crimine descritto come uno dei peggiori avvenuto nel mar Mediterraneo. Non possiamo neanche rintracciare notizie certe sulla vita delle due vittime.
Questo può voler dire due cose: o il potere del Malatesta era così grande da esser riuscito a trafugare ogni documento e sospetto, o anche all’Inferno Pier da Medicina non smette di seminare discordia.

Se precedentemente Maometto mette in guardia da un fatto vero e proprio, adesso siamo alle prese con un grande punto interrogativo. Certo, siamo sempre all’Inferno, dove le anime non hanno imparato dai propri peccati che, anzi, continuano a commettere o non prendendosi la colpa – come nei canti precedenti – o attuando sempre gli stessi comportamenti.

E io a lui: «Dimostrami e dichiara,
se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella,
chi è colui da la veduta amara».

Allor puose la mano a la mascella
d’un suo compagno e la bocca li aperse,
gridando: «Questi è desso, e non favella.

Questi, scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che ‘l fornito
sempre con danno l’attender sofferse».

Oh quanto mi pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza
Curïo, ch’a dir fu così ardito!

Dante ci fa rimanere con il dubbio, perché più interessato a capire chi sia l’anima dannata vicino e Pier da Medicina. Questa non può parlare, così è Pier a prendere parola per lei. Incontriamo così Gaio Scribonio Curione (90 a.C – 49 a.C.), grande sostenitore di Giulio Cesare tanto che fu esiliato da Roma proprio per il suo difendere a spada tratta l’amico. Tale sostegno, però, gli costa la dannazione eterna perché è qui condannato per aver convinto Cesare a passare il Rubicone, facendolo così diventare un nemico di Roma.

Molto portato per l’arte oratoria, pare che Curione lo abbia persuaso dicendogli che chi è ben preparato ha sempre subito danno quando ha indugiato. Data l’amicizia tra i due, non siamo del tutto convinti lo abbia fatto con cattiveria e probabilmente non lo era neanche Dante, visto che non lo fa parlare da sé.

Tutto ciò, però, ci fa pensare che dovremmo pensarci molto su prima di dare i nostri i consigli azzardati, anche non lo facciamo con cattiveria. Le azioni, infatti, ricadono su chi le compie e spesso dare sostegno può semplicemente significare starci comunque vadano le cose, senza forzare la mano.

E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
levando i moncherin per l’aura fosca,
sì che ‘l sangue facea la faccia sozza,

gridò: «Ricordera’ti anche del Mosca,
che disse, lasso!, ‘Capo ha cosa fatta’,
che fu mal seme per la gente tosca».

E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»;
per ch’elli, accumulando duol con duolo,
sen gio come persona trista e matta.

Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa, ch’io avrei paura,
sanza più prova, di contarla solo;

se non che coscïenza m’assicura,
la buona compagnia che l’uom francheggia
sotto l’asbergo del sentirsi pura.


Vi ricordate quando ne VI Canto Ciacco disse a Dante che avrebbe trovato molti fiorentini all’Inferno? Ebbene, eccone un altro: Mosca dei Lamberti (fine XII secolo – 1243). Questa anima non ha le mani, ma agita comunque le due braccia monche, e così facendo il volto si macchia di un rosso sangue vivo.
La pena ricorda un po’ le azioni che ha intrapreso in vita, che come un effetto domino hanno dato il via a una successione di eventi tremendi e inarrestabili.

Buondelmonte de’ Buondelmonti era un personaggio che può ricordare il Rugantino romano, anche se appartenente a una famiglia nobile fiorentina; lui era un tipo passionale e rissoso. Per placarlo a seguito di una lite, gli fu promessa in sposa Reparata di Lambertuccio, una fanciulla di casa Amidei, altra famiglia nobile fiorentina. Peccato che la pace durò poco perché Buondelmonte, innamoratosi di una donna Donati, ruppe il fidanzamento. Questa azione venne vista come un affronto dagli Amidei che giurarono di vendicarsi.
Chiesero consiglio proprio a Mosca dei Lamberti, il quale diede loro la brillante idea di uccidere Buondelmonte. Gli Amidei non erano del tutto convinti e il Lamberti disse la famosa frase, riportata anche da Dante: “Cosa fatta capo ha” a significare che un esito, anche se così drastico, è sempre meglio dell’indecisione.
Buondelmonte venne ucciso la domenica di Pasqua, giorno delle sue nozze. A seguito delle altre vendette, nella Storia questo atto è ancora visto come l’inizio della lotta tra guelfi e ghibellini a Firenze.

Siamo nei gironi più atroci dell’inferno, e dobbiamo per forza di cose notare che Dante, guelfo bianco convinto – e per questo esiliato da Firenze – condanna qui la prima persona che diede origine a tutto, facendogli notare che quel suo atto fu proprio la causa della rovina dei Lamberti e di Firenze stessa. Possiamo vederlo anche come un:
Certo che ti potevi fare gli affaracci tuoi”. Così l’anima va via, afflitta nel suo dolore.

Ma attenzione a chi viene dopo, perché in Dante è ancora viva la tremenda paura di quello che vede.

Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;

e ’l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna;
e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».

Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due:
com’esser può, quei sa che sì governa.


Dante vede un’anima procedere in avanti, ma questa cammina solo con il busto perché la testa non è attaccata al collo, bensì alla mano che la tiene come se fosse una lanterna. Ce lo descrive come due parti in un corpo e un corpo in due, che si facevano luce ma ammette anche se solo la parte divina può capire come questo sia possibile.

Quando diritto al piè del ponte fue,
levò ’l braccio alto con tutta la testa,
per appressarne le parole sue,

che fuoro: «Or vedi la pena molesta
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s’alcuna è grande come questa.

E perché tu di me novella porti,
sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma’ conforti.

Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli:
Achitofèl non fé più d’Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli.

Perch’io parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch’è in questo troncone.

Così s’osserva in me lo contrapasso».


L’anima è del poeta e militare francese Bertran de Born (1140-1215) reo di aver messo un contro l’altro re Enrico II (1133-1189) e suo figlio Enrico il Giovane (1155-1183).     
L
’inglese Enrico II decise di dividere i suoi appezzamenti e titoli tra i vari figli. Suo figlio Enrico, assetato di potere, non accettò una suddivisione e cercò di aizzare anche i fratelli contro il padre, il tutto supportato dalla madre Eleonora d’Aquitania (1122-1204) e proprio la corte francese, dove loro avevano i feudi. Questo piano, passato alla storia inglese come Rivolta del 1173-1174, venne visto da Enrico II come tradimento, ma fortunatamente il tutto venne sapientemente domato. Solo Enrico il Giovane, però, fu costretto a rinunciare al governo sia del regno inglese che dei feudi francesi, pur mantenendo titoli e rendita.

De Born ha la testa staccata dal corpo proprio perché ha diviso due persone così vicine a livello di legame famigliari. Ai tempi si credeva infatti che il cervello avesse origine proprio dalla cervicale, quindi il contrappasso lo punisce dividendosi nel modo più orribile possibile.
Dante può esserne così terrorizzato perché a livello morale mettere padre e figlio uno contro l
’altro, non è di certo roba da poco.

Vediamo anche che è la prima volta che nella Commedia appare la parola “contrapasso”. Molte anime hanno spiegato il loro peccato e di conseguenza il perché della punizione, ma non hanno mai utilizzato quel termine. Cerchiamo di capirne di più.

L’etimologia della parola deriva dal latino medievalecontrapassum”, a sua volta derivato di “passum”, participio passato di “pati”, che vuol dire
soffrire. Di conseguenza, con il prefisso “contra” il significato diviene: “controsofferenza”.

È come se in questo momento del nostro cammino spirituale noi cominciamo a prendere coscienza del fatto che un peccato avrà conseguenze emotive sulla nostra vita. Soffriamo più di quanto abbiamo fatto soffrire; possiamo chiamarlo karma, se vogliamo. Non siamo ancora pronti a lasciare andare certi comportamenti, ma capire che facciamo prima di tutto del male a noi stessi, è un importante passo avanti.

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