venerdì 21 luglio 2023

#StorieRomane: Chiesa di San Giovanni Decollato

Roma è ricca di storia, e di certo non serve un’ulteriore spiegazione in merito. Sarà capitato a tutti di vedere almeno un romano (nel senso di abitante, non necessariamente di nativo) orgoglioso della sua città, e questo capita spesso quando si ha davanti una persona che ama la storia, sotto ogni sua sfumatura.

Per chi sta scrivendo, per esempio, non c’è vanto più grande di quello di essere romana, proprio perché quella sensazione che si avverte quando la stessa Storia ci si palesa davanti. La sua apparizione, poi, può essere del tutto improvvisa, come nel caso della visita alla Chiesa di San Giovanni Decollato, nel rione Ripa


A pochi passi da Circo Massimo sorge la Chiesa di San Giovanni decollato, affidata all’Arciconfraternita da cui ha poi preso il nome nel 1488. Prima la chiesa era titolata a Santa Maria de fovea (o della fossa) e il suo aspetto rimase immutato fino al 1504, quando l’Arciconfraternita diede inizio ai primi lavori.     
Nel corso di quello stesso secolo, furono aggiunte opere di artisti per lo più toscani – come la provenienza della confraternita. Ecco perché il nome del Santo Patrono di Firenze – come quelle di Jacopino del Conte e Francesco Salviati.
Tra quelle più importanti, possiamo citare l’affresco “La danza di Salomè” (1550) di Pirro Ligorio, di estrema rarità in quanto è una delle poche testimonianze del suo lavoro a Roma come pittore.
Il Vasari nel 1553 raffigura la Decollazione del Battista, nella pala dell’altare maggiore.
I lavori vennero poi conclusi nel 1588. Ovviamente la Chiesa è sempre stata soggetta a restauri, i più importanti sono avvenuti nel 1727 e nel 1888.

Quello che può colpire di più, però, è un vero e proprio museo posto nella Camera Storica dell’Arciconfraternita. Quest’ultima, infatti, aveva il compito di rimanere accanto ai condannati a morte, già dal momento della loro sentenza. Davano sostegno e conforto, più la promessa di una degna sepoltura in tempi in cui di loro nessuno si interessava.
Da quando era ancora detenuto, quindi, l’uomo o la donna che fosse, aveva già una sicurezza di una degna sepoltura e probabilmente di una possibilità di salvezza.
Nel 1600 Clemente VIII fece costruire il chiosco là dove precedentemente erano disposte le fosse comuni, ancora oggi visibili. Esse sono rivestite da dei chiusini con la frase: “Domine, cum veneris iudicare, noli me condannare” (trad. Signore, quando verrai a giudicare, non condannarmi).

Nella Camera Storica sono presenti numerosi oggetti, testimonianze di come era purtroppo intesa la giustizia nei secoli passati. Possiamo trovare la cesta in cui venivano riposte le teste dei giustiziati, le barelle utilizzate per portare via i cadaveri, alcuni vestiti tra cui (forse) il mantello di Giordano Bruno e quelli utilizzati dal celebre boia Mastro Titta. E ancora non mancano funi, cappucci utilizzati dagli impiccati, i registri dei condannati… tra i resti più importanti l’inginocchiatoio dove Beatrice Cenci recitò le sue ultime preghiere.

I nomi e le storie dei più non sono rimasti nella memoria storica, cancellando qualsiasi fosse stata la loro colpa. Eppure il loro sacrificio viene in un qualche modo ricordato perché le ossa, poste sul pavimento della Chiesa, vengono benedette ogni anno; il tutto è poi sancito da una incantevole processione alla luce delle fiaccole.

È davvero stimolante pensare che prima o poi tutta la sofferenza verrà cancellata dal perdono. Dopotutto il male è dentro ognuno di noi e non c’è modo migliore di abbatterlo se non concedendo la redenzione al passato.

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