venerdì 28 luglio 2023

#DivinaCommedia: Canto XXVII

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.

Oggi analizziamo il ventisettesimo canto dell’Inferno. Questo è strettamente legato al precedente e di conseguenza alla storia di Ulisse, anche se analizziamo il peccato da un altro punto di vista.
Nel Canto XXVI, infatti, abbiamo visto che l’intelletto non può guidarci totalmente nella nostra vita, perché questo ci renderebbe dei folli maniaci del controllo che vogliono raggiungere qualcosa a cui non siamo destinati.
Con la storia di Guido da Moltefeltro vediamo come astuzia, logica e intelletto non solo ci fanno prendere cantonate pesanti, ma ci distolgono dal nostro cammino, anche quando siamo sulla via della redenzione.

Al solito vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su se stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi. 

Già era dritta in sù la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,

quand’un’altra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n’uscia.

Come ‘l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l’avea temperato con sua lima,

mugghiava con la voce de l’afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto;

così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertïan le parole grame.


Ulisse va via senza che i due Poeti possano fare alcun commento, come se bastasse semplicemente la sua storia a parlare. Questo non staccare completamente serve a far capire che il discorso iniziato con Ulisse non è ancora finito, che il problema di mandare avanti l’intelletto quando si tratta di divino non solo può portarci alla follia, ma può anche condannarci nonostante una nostra redenzione.
Come diciamo spesso: per un’anima che va, un’altra ne viene e questo scambio all’“Avanti un altro” serve come monito per prestare la nostra attenzione sul cambiamento della prospettiva: siamo sempre nel girone dei consiglieri fraudolenti, quindi con una lente d’ingrandimento puntata sull’astuzia.

Dante per descrivere il suono indistinto che fuoriesce dalla fiammella fa riferimento a una famosa leggenda dell’epoca, quella del toro di Falaride di cui vi abbiamo già parlato qui. Così come nell’antica storia, anche qui l’inganno è ben celato dietro la maschera del fare bene.
Ricordiamo, ancora una volta, che più sono presenti riferimenti diversi allo stesso peccato, più Dante pretende la nostra attenzione.

Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,

udimmo dire: «O tu a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo ‘Istra ten va, più non t’adizzo’,

perch’io sia giunto forse alquanto tardo,
non t’incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!

Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se’ di quella dolce terra
latina ond’io mia colpa tutta reco,

dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
ch’io fui d’i monti là intra Orbino
e ‘l giogo di che Tever si diserra».


Quando Dante riesce a comprendere quanto dice l’anima, riporta anche le sue parole: la fiamma ha riconosciuto il loro parlare lombardo – all’epoca la Lombardia era una regione molto estesa, che comprendeva tutta l’Italia settentrionale, fino alle Marche – e vuole sapere cosa stia succedendo nella sua terra: la Romagna.

Ricordiamo che le anime dell’Inferno possono ricordare il passato, a volte prevedere il futuro, ma mai hanno gli occhi puntati sul presente. Che ci serva da monito, perché ogni volta che non prestiamo la giusta attenzione al qui e ora stiamo all’Inferno. Ogni volta che la mente ritorna al passato, o crea scenari per un futuro, noi diamo spazio a quella zona oscura e ombrosa al nostro interno.

L’anima commette un grave errore, spinta dalla sua mente logica: crede che Dante sia un dannato e che per questo non tornerà mai più nel mondo dei vivi. Adesso è troppo presto per spiegare il perché di questo sbaglio, ma vogliamo mettere la pulce nell’orecchio, proprio perché è importante, anche nel nostro quotidiano, non dare mai nulla per scontato.

Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: «Parla tu; questi è latino».

E io, ch’avea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
«O anima che se’ là giù nascosta,

Romagna tua non è, e non fu mai,
sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
ma ‘n palese nessuna or vi lasciai.

Ravenna sta come stata è molt’anni:
l’aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.

La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.

E ‘l mastin vecchio e ‘l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d’i denti succhio.

Le città di Lamone di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.

E quella cu’ il Savio bagna il fianco,
così com’ella sie’ tra ‘l piano e ‘l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.

Ora chi se’, ti priego che ne conte;
non esser duro più ch’altri sia stato,
se ‘l nome tuo nel mondo tegna fronte».


Tutte queste terzine hanno il compito di far spiegare da Dante com’è la situazione in Romagna: Ravenna rimane dei da Polenta, dopo aver sancito anche l’alleanza con i Malatesta di Rimini (con il matrimonio di Francesca, figlia di Guido il Vecchio, e Gianciotto Malatesta. La storia di lei è presente nel V canto). Dopodiché hanno preso il controllo anche di Cervia, all’epoca città importante per la produzione del sale e per il suo porto; Forlì, centro ghibellino, è degli Ordelaffi; Faenza e Imola sono di Maghinardo dei Pagani da Susisnana, che cambia spesso alleanza tra guelfi e ghibellini; Cesena è di Galasso da Montefeltro, cugino di Guido.

Poscia che ‘l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l’aguta punta mosse
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:

«S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse;

ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo.


Giunti a questo punto, Dante scopre chi è l’anima avvolta nelle fiamme: Guido da Montefeltro, appunto. Approcciamoci un po’ alla vita di questo noto personaggio dell’epoca.
Nacque nel 1220. A ventotto anni era a capo delle schiere ghibelline di Faenza e Forlì, sotto il servizio di Federico II.
Nel 1259 divenne podestà di Urbino, per poi trasferirsi a Roma, nel 1268, perché Vicario di Corradino di Svevia. Nel corso della sua carriera politica divenne capo dei fuoriusciti di Bologna.
Nel 1275 riuscì a vincere contro i Geremei, un’associazione di guelfi bolognesi che erano in lite con i ghibellini Lambertazzi. Qualche mese più tardi vinse anche contro Malatesta da Verrucchio, capo dei guelfi. Le sue vittorie, guidate da grandi abilità d’astuzia, lo resero Capitano di Forlì ed elemento principale per la politica antipapale della Romagna.
Per ovvi motivi venne scomunicato dalla Chiesa ed esiliato a Chioggia prima e ad Asti poi, per scappare nel 1289 e riprendere il suo ruolo, questa volta accanto ai ghibellini Pisani.
Nel 1292 riuscì a occupare Urbino, dove instaurò la sua signoria.
Ma il vero colpo di scena arriva in vecchiaia: nel 1294 quando si riavvicinò alla Chiesa, prima grazie all’intervento di Papa Celestino V, poi con Bonifacio VIII. Nel 1296 entrò nell’ordine di S. Francesco, per morire nel 1298 permeato da un alone di santità, ancora mai avvenuta.

Dopo il breve riassunto della sua vita, andiamo a vedere il perché dell’errore commesso: Guido da Montefeltro, come accennato prima, è convinto che Dante sia un’anima dannata, sua compagna di peccato. Grazie a questo e alle lusinghe dette dal sommo poeta per conquistare la sua fiducia – ricordiamo come Dante stesso abbia ammesso che lui si sente il primo peccatore di questo girone – Guido spiega il motivo per il quale, nonostante l’abito francescano e il suo essersi pentito in vita per le azioni intraprese, si trova all’Inferno.

Facciamo finta di tornare al 1321 ed essere tra i primi fortunati lettori/ascoltatori della Commedia che si trovano davanti un personaggio quasi santo all’Inferno: la notizia ci sconvolge e non poco. Qui sta la maestria di Dante: darci una lezione – al solito la vedremo meglio verso la fine – e togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Sappiamo tutti dei suoi rapporti tesi con Bonifacio VIII, responsabile del suo esilio, quindi il segreto svelato ha un sapore di sadica vendetta che non possiamo non ammirare. Sì, siamo peccatori anche noi, dopotutto.

Le parole di Guido saranno dettate dalla logica umana che, come ripetiamo spesso, non ha nulla a che vedere con il divino. L’astuzia lo colpisce un’altra volta e nel terreno la sua fama prenderà un’altra piega.

Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venìa intero,

se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e
quare, voglio che m’intenda.

Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
che la madre mi diè, l’opere mie
non furon leonine, ma di volpe.

Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch’al fine de la terra il suono uscie.

Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,

ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.


Guido racconta a Dante che nel convertirsi e nel prendere servizio nell’ordine dei frati francescani, aveva fatto anche ammenda di tutti i suoi peccati. Tale scelta fu apprezzata da molte persone, lo stesso Dante lo loda nel suo Convivio (1304-1307), ma tutto finisce – secondo l’anima – per colpa di Bonifacio VIII. Anche qui, notiamo come l’anima infernale non si prenda la responsabilità delle proprie scelte, ma anzi, le dà nella sua totalità a qualcun altro.
Ammette che tutto ciò che ha fatto in vita fosse spinto dall’astuzia e dalla furbizia, mai dal coraggio o da un giusto orgoglio rappresentato dal leone. Questa presa di coscienza, però, non ha il tono di un pentimento, bensì di una pomposità boriosa; Guido è in realtà compiaciuto di come le sue capacità lo abbiano reso noto in tutto il mondo.
Tale superbia non è cancellata tutt’ora, meno che mai quando lui si ritrovò “inspiegabilmente” all’Inferno al momento della sua morte.

Nelle prossime terzine vedremo proprio come è avvenuto il passaggio della sua anima dal mondo dei vivi e non vi neghiamo che rivederlo in età adulta ci fa ricordare un po’ le puntate di Supernatural, almeno quelle fatte bene, fino alla quinta stagione, per intenderci.


Lo principe d’i novi Farisei,
avendo guerra presso a Laretano,
e non con Saracin né con Giudei,

ché ciascun suo nimico era Cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano,

né sommo officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri.

Ma come Costantin chiese Silvestro
d’entro Siratti a guerir de la lebbre,
così mi chiese questi per maestro

a guerir de la sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre.

E’ poi ridisse: ‘Tuo cuor non sospetti;
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.

Lo ciel poss’io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che ‘l mio antecessor non ebbe care’.

Allor mi pinser li argomenti gravi
là ‘ve ‘l tacer mi fu avviso ‘l peggio,
e dissi: ‘Padre, da che tu mi lavi

di quel peccato ov’io mo cader deggio,
lunga promessa con l’attender corto
ti farà trïunfar ne l’alto seggio’.


Guido è consapevole del fatto che anche Dante sappia di che pasta è fatto Bonifacio VIII – ancora vivo nel momento storico in cui è ambientata la Commedia – ma vuole rimarcarlo lo stesso (molto probabilmente è Dante stesso che ci tiene a evidenziare la politica del pontefice): questo Papa, invece di pensare agli affari della Chiesa e difenderla da altri credo, cerca a tutti i costi di imporre il suo potere all’interno dell’istituzione stessa, mandando avanti guerre contro i suoi nemici personali, i Colonna in primis.     
La nota famiglia romana si era opposta fermamente alla sua elezione e per questo motivo, secondo Bonifacio VIII, doveva pagarla a tutti i costi: il Papa istituì un processo di eresia contro Iacopo e Pietro Colonna, confiscò i loro beni a Roma e iniziò una vera e propria crociata per accaparrarsi i loro feudi.
Per fare tutto questo, e più, chiese proprio aiuto a Guido che rifiutò, ricordando a Bonifacio VIII che ormai stava nell’ordine francescano e aveva finito con certi inganni. Il Papa, allora, per convincere Guido, gli ricorda che lui è al capo anche dei cieli e in cambio del suo aiuto può perdonarlo da ogni colpa, aprendogli così le porte del Paradiso. A questa falsa promessa, Guido cede e acconsente a tendergli la mano.

Quanto è facile dare la colpa agli altri dei nostri errori? Non neghiamolo: viviamo senz’altro meglio quando crediamo che siamo inciampati nel male perché gli altri ci hanno spinti. La verità, però, è che siamo stati noi a cedere. Nessuno può costringerci a fare nulla, siamo sempre noi che decidiamo il tutto.
Certo, la promessa del Paradiso era abbastanza gustosa, ma Guido, proprio perché sotto l’ordine dei francescani, avrebbe dovuto ben sapere che tale compito spetta solo a Dio e che il pentimento è vero solo se seguito dalle giuste azioni.
Guido amava i suoi talenti – e infatti ricordiamoci che poco prima gli esaltava vantandosene – quindi, forse, in verità, era più che lusingato dal fatto che il Papa in persona avesse richiesto il suo aiuto, anche se era nello stato ormai avanzato dell’età. Probabilmente con quel patto lui non si sentiva più inutile, e poteva tornare ad assaporare gli strascichi della sua importanza.

Ma come ha fatto Dante a sapere questo retroscena? Dalle cronache presenti nell’Historiae di Riccobaldo da Ferrara, composte tra il 1308 e il 1311. Ed ecco spiegato anche perché il cambiamento d’opinione dal Convivio alla Commedia.

Francesco venne poi, com’io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini
li disse: ‘Non portar; non mi far torto.

Venir se ne dee giù tra’ miei meschini
perché diede ‘l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a’ crini;

ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente’.

Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: ‘Forse
tu non pensavi ch’io löico fossi!’.

A Minòs mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,

disse: ‘Questi è d’i rei del foro furo’;
per ch’io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro».


Ed ecco qui l’immagine alla Supernatural accennato prima: al momento della morte di Guido, è San Francesco stesso a intercedere per l’anima, ma nulla può il frate d’Assisi, perché un demone gli fa notare che l’anima spetta all’Inferno. Il discorso del diavolo è da brividi, gela il sangue: a nulla vale il pentimento se non è seguito dalle giuste azioni. Non basta pentirsi o convertirsi a parole, bisogna farlo anche attraverso la volontà.
Molto più avanti, se avrete voglia di seguirci fino al V canto del Purgatorio, scopriremo che l’anima di Buonconte da Moltefeltro – figlio di Guido – è invece salva. Come mai? Ebbene, il figlio è stato forse più saggio del padre che credeva nella salvezza solo perché sotto San Francesco. Buonconte in punto di morte invoca nel pentimento il nome di Maria ed è per questo che è – almeno per il momento – fuori dall’Inferno.

Paradiso e Inferno “combattono” per l’anima appena trapassata, ma Guido qui si concentra su un fatto davvero disarmante, per lui: è stato battuto in astuzia e furbizia proprio dal diavolo. Ancora: la logica umana non ha nulla a che vedere con il divino. Chi si macchia di questi peccati, però, dovrà fare i conti con il più grande degli ingannatori: il diavolo stesso.

Nei canti XXI e XXII abbiamo visto la figura dei diavoli e di come dovremmo rapportarci con loro. Li abbiamo paragonati ai pensieri intrusivi, a quell’ansia e negatività che fanno di tutto per distogliere il nostro focus su ciò che conta davvero. Lo stesso fanno astuzia e furbizia: ci distolgono dalla strada maestra per andare incontro alla vanagloria e alla sete di potere di cui il nostro Ego non è mai sazio.


Quand’elli ebbe ‘l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo ‘l corno aguto.

Noi passamm’oltre, e io e ‘l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l’altr’arco
che cuopre ‘l fosso in che si paga il fio

a quei che scommettendo acquistan carco.


Come accaduto con Ulisse, non servono ulteriori parole per commentare il tutto. Il discorso si spegne da sé, secondo noi perché va ben meditato.
Dovremmo tutti ripensare al nostro quotidiano, a come utilizziamo i nostri carismi e talenti, se le nostre azioni sono dettate dal buon senso o dal voler ricercare chissà quale accordo egoico. In più, per avvicinarci davvero alla fine dell’Inferno dobbiamo prendere coscienza che non possiamo incolpare gli altri per le conseguenze della nostra vita.
Lo sappiamo, potrà sembrare un discorso difficile o estremista, ma siamo coscienti che piano piano, procedendo in questa categoria, tutto verrà maggiormente ampliato e spiegato.

Comunque, Dante ci annuncia già chi incontreremo nel prossimo canto: i seminatori di discordie e scismi.

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