martedì 29 settembre 2020

#Costume&Società: Un "mi piace" può aiutare?

Siamo nel 2020, se non hai uno smartphone sei in qualche modo tagliato fuori dalla società: ci scambiamo messaggi su whatsapp, ci chiamiamo in videoconferenze con Google, addirittura molti enti pubblici permettono l’accesso solo tramite determinate app degli smartphone. Ogni giorno siamo connessi gli uni agli altri. I social, soprattutto, la fanno da padrone in ogni campo: facciamo attenzione che i nostri profili mostrino sempre e solo il meglio di noi, che rappresentino le nostre idee o, in molti casi, le idee della massa. Soprattutto i giovani sono “vittime” inconsapevoli del bisogno costante di ricevere riscontri, che siano il più positivi possibili. Pensate a Facebook o anche al cuore su Twitter e Instagram: il “mi piace” è uno strumento potente, che ci fa sentire apprezzati, capiti. Dobbiamo avere un costante riscontro in quello che facciamo. Già da qui si capisce che non è proprio salutare.

L’umano, per sua costituzione, è un essere sociale, che quindi ha bisogno di essere parte di un tessuto sociale, che siano gli amici, la famiglia o anche semplici conoscenti. Nessun uomo è un’isola, dopotutto. Un tempo la popolarità veniva rappresentata dal “gruppo”, dal numero di amici che costituivano la classica “comitiva”, ma oggi i numeri sono altri: sono i follower e i like sui vari profili.

Basta un like per sentirci migliori, perché i social network influiscono sulla nostra autostima. Soprattutto i più giovani, quando vedono che un post non riceve i like sperati, tendenzialmente lo cancellano. Sono stati fatti diversi studi su questi processi: William James, psicologo e filosofo americano, definiva l’autostima come il prodotto del rapporto tra il sé reale e il sé ideale. Ricevere un feedback esterno, in questo caso il “mi piace”, può rafforzare il nostro senso di autostima e la percezione che abbiamo di noi stessi. Si tratta di piccole ricompense immediate che non ci preparano alle sfide del mondo esterno.

Si parla di “sindrome del like”, perché questo apprezzamento virtuale genera nei nostri neurotrasmettitori una scarica di dopamina che causa dipendenza, al pari delle droghe. Nel documentario di Netflix “The social dilemma” (ne abbiamo parlato qui), si vede un’adolescente che si scatta una foto  con il telefonino per poi postarla immediatamente. Quando si rende conto di aver ricevuto solo due like, si può leggere la tristezza nel suo sguardo, prima di vederle eliminare lo scatto dal social network. Ci siamo evoluti in modo da rendere importante il parere del nostro gruppo, ma fino a poco fa non sentivamo il bisogno costante di ricevere un feedback ogni cinque minuti. Non era questa l’idea di base dei social.

Costruiamo le nostre vite intorno a quest’idea di perfezione percepita, perché veniamo ricompensati tramite questi segnali a breve termine, cuori, like, pollici in su, e li confondiamo con il valore e la verità. In realtà si tratta di una popolarità finta, a breve termine e che ci lascia un senso di vuoto ancora più grande, perché ci inserisce in questo circolo vizioso che ci porta a pensare ‘E ora cosa devo fare? Perché ne voglio ancora.’ Pensate questo applicato a due miliardi di persone e poi pensate a come reagiscono le persone alla percezione che gli altri hanno di noi. Siamo messi male. Molto male. ” Chamath Palihapitiya [Ex Vice-Presidente per la crescita di Facebook]

Lo scopo del “mi piace” su Facebook inizialmente era quello di “diffondere positività nel mondo”, ma questo meccanismo ci si è ritorto contro. Adolescenti e non in depressione per i pochi “mi piace” o che venissero spinti al suicidio per questo non era contemplato. Ma a oggi è una realtà.

Non esiste un “patentino” per i social, anche se servirebbe. Noi siamo persone con cervello e immaginazione, fantasia e lato critico, non sono i like che ci aiutano ad andare avanti e non sono i like che ci rendono persone speciali o degne di nota. Siamo noi nella nostra interezza e questo basta e avanza. Purtroppo non se ne parla mai abbastanza o si ritiene un problema molto blando. Ma se il “mi piace” ricevuto o non ricevuto ha portato a una impennata di depressioni e suicidi, pensate a quali reazioni si avrebbero soprattutto tra gli adolescenti se ci fosse anche un pulsante “non mi piace”.
Sarebbe il caos. Come sempre, non si demonizza il mezzo, ma l’uso smodato che se ne fa. Pensateci bene prima di condividere un pezzo di voi sul web.

 

 

Nessun commento:

Posta un commento