venerdì 27 agosto 2021

#Cinema&SerieTv: Sound of Metal - Recensione

Candidato a sei premi Oscar e vincitore di due (miglior montaggio e miglior sonoro), oggi noi di 4Muses vogliamo parlarvi di “Sound of Metal”, scritto e diretto da Darius Marder nel 2019 e che potete trovare su Prime Video.

Nel film seguiamo la storia di Ruben Stone, ex tossicodipendente e batterista di un duo metal itinerante che, a poche ore da un concerto, perde completamente l’udito. Dopo un’attenta visita da uno specialista, il protagonista viene a sapere della sua critica situazione di salute, in cui se continuerà a sforzare l’udito, lo perderà del tutto. L’unica soluzione sembra l’intervento per un impianto cocleare che potrebbe ristabilire in parte il senso mancante. Nel mentre, però, Lou, la sua compagna e cantante del duo, accompagna Ruben in un centro per sordi, gestito da un veterano del Vietnam, Joe, che ha perso l’udito in seguito all’esplosione di una bomba.

Nella struttura, si porta i nuovi membri a comprendere e a accettare la disabilità, più a livello mentale che uditivo, a non considerare la sordità come un handicap, e manifestando apertamente contrarietà agli impianti acustici. Seppur non pienamente convinto, il protagonista inizia ad ambientarsi nella comunità, stringendo diverse amicizie e aiutando anche i bambini nel loro quotidiano. Il suo soggiorno viene finanziato dalla Chiesa e quando i fondi vengono rimossi, Joe gli propone di restare nel centro come collaboratore. In un primo momento, Ruben è confuso, e quando scopre che Lou si è trasferita a Parigi, intenta a cercare nuovi sound per la sua musica, vende tutto quello che ha e va in ospedale per l’intervento, deciso a raggiungerla. L’operazione riesce, ma essendo rimasto completamente al verde, torna al centro per chiedere un prestito a Joe, il quale si rifiuta perché Ruben è andato contro tutti i principi del centro (accettare la disabilità, non considerarla un handicap e non accettare gli impianti acustici). Passa un mese e a Ruben vengono attivati del tutto gli impianti, ma il protagonista rimane deluso nel constatare che il suo udito non è tornato come prima, anzi, gli rimanda un suono quasi metallico, fastidioso. È comunque meglio di niente, pensa. Arrivato in Francia, Lou e Ruben si incontrano di nuovo, ma ormai non c’è speranza per il loro duo, così la mattina dopo il ragazzo fa la valigia e se ne va. Asfissiato dai forti rumori della città, si toglie dalle orecchie gli impianti, scoprendo che, nonostante il silenzio, può ancora vivere serenamente.

Il film fa un uso magistrale dei suoni, non a caso gli è valso l’Oscar, in cui l’inizio è segnato da rumori forti, a volte anche troppo, ma quando Ruben perde l’udito, tutto diventa ovattato, quasi difficile da capire. Per lunghi tratti della pellicola, vi è solo silenzio, senza alcuna musica di sottofondo. Vestiamo i panni del protagonista, che cerca in tutti i modi di sopravvivere in un mondo dove il suono, il capire l’altro è fonte essenziale di sopravvivenza, soprattutto se sei un musicista che vive alla giornata. Ruben si sente solo, in un mondo che stenta a riconoscere e, come un bambino, deve cominciare a muovere i primi passi superando la paura che sia tutto una perdita di tempo. La meta ultima, il suo scopo, è riposto completamente nell’impianto uditivo, ma ancora una volta c’è qualcuno che cerca di spiegargli che è comunque una sorta di “educazione mentale”. Joe e l’infermiera cercano di fargli capire che tutto parte dal cervello. Il primo preme per fargli capire che la sordità non è un handicap, mentre la seconda che le sue orecchie non funzioneranno più bene, ma che il suono arriverà comunque alla sua mente come se passasse per i canali uditivi. Tutto sembra illusorio. Ciò che Ruben rincorre con tutte le sue forze è il cercare di ritornare a come era prima, ma il passato non esiste più e deve prendere in mano le redini della sua vita per rimanere in carreggiata.

Basata sulla vera storia di un batterista affetto da acufene, la recitazione di Rizwan Ahmed (Ruben) gli è valsa la candidatura all’Oscar come miglior attore protagonista. Non c’è alcuna banalizzazione del problema, non cade mai nell’”overacting” (nell’estremizzare alcune reazioni), ma tutto viene spiegato nel suo sguardo. I suoi occhi riescono perfettamente a trasmettere il senso di solitudine e impotenza che la sua condizione, se non accettata, impone. Un mondo fatto di silenzio lo condanna, perché non può più essere il Ruben di una volta. Non può più suonare la sua amata batteria e anche il solo sentire la sua compagna cantare non gli trasmette più le vibrazioni di una volta, in quanto il suono arriva distorto. Cosa c’è di più scoraggiante nel sapere che un ex tossicodipendente si è allontanato dalle droghe per abbracciare la musica e anche questa gli viene strappata via? Ci sono molti primi piani sul volto di Ruben, in cui lo vediamo alla disperata ricerca di un gesto di conforto, una muta richiesta di aiuto mentre noi assistiamo alla sua lenta decadenza. Ecco quindi che suono e silenzio acquistano un peso, enfatizzato dal montaggio sonoro. Da creatore qual era, Ruben sceglie volontariamente di togliersi le cuffiette, mentre alza lo sguardo verso un sole quasi allo zenit che filtra tra gli alberi parigini in un completo senso di pace. Alla fine accetta la sua condizione, in un finale aperto che fa presagire un futuro diverso, più calmo. Un mondo silenzioso non è un mondo deceduto, le armi per affrontarlo ci sono, basta solo trovare il proprio posto.

  

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