sabato 25 marzo 2023

#DivinaCommedia: Canto XXIII

Oggi analizziamo il canto XXIII dell’Inferno concentrandoci sul tema dell’ipocrisia. È più che ovvio quanto questo argomento riguardi veramente ognuno di noi, così come è strettamente legato all’adulazione.

Al solito vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su se stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.

Altro punto importante dell’articolo crediamo sia anche vedere come i pensieri intrusivi, già presenti nel canto precedente, ci facciano credere che siano realtà ancora prima che il tutto si compi.   

Quante volte, infatti, ci siamo bloccati e non siamo andati avanti per paura potesse accaderci ciò che avevamo in mente?

Taciti, soli, sanza compagnia
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
come frati minor vanno per via.

Vòolt’era in su la favola d’Isopo
lo mio pensier per la presente rissa,
dov’el parlò de la rana e del topo;

ché più non si pareggia ‘mo’ e ‘issa’
che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia
principio e fine con la mente fissa.

Dante non ha bisogno di spiegare dettagliatamente la favola di Esopo della rana e il topo perché all’epoca era nota a tutti quanti. Per noi, invece, serve un breve ripasso, anche se simile a quella della Rana e lo Scorpione.

Un topo di campagna e una ranocchia fecero amicizia. La rana, per dimostrare il forte legame che li univa, legò la sua zampa a quella del nuovo amico. Così i due facevano tutto insieme, dal passeggiare al mangiare il grano dei campi. Finché la furba rana non si avvicinò al bordo di uno stagno, cadendo in acqua e facendo così morire annegato il topo. Per la paura di quello che gli stava capitando, però, il povero animaletto squittì così tanto che catturò l’attenzione di un nibbio. Quest’ultimo, cadendo in picchiata, catturò entrambi gli animali.

Dante e Virgilio, quindi, camminano uno di fronte all’altro, in silenzio come fanno i frati minori. Con queste due immagini il Poeta vuole già mostrarci di cosa parlerà il canto: dell’inganno provocato dall’ipocrisia.

Piccola nota che a noi piace portare in risalto: Dante utilizza i termini “mo” e “issa” per il significato di “adesso”. Il primo viene utilizzato più nell’Italia meridionale, il secondo in quella settentrionale. In un certo senso è come se avesse voluto farci vedere che l’ansia incombente per qualcosa che potrebbe accadere (vedremo bene dopo) appartiene a tutti noi, nessuno escluso.

E come l’un pensier de l’altro scoppia,
così nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fé doppia.

Io pensava così: «Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa
sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.

Se l’ira sovra ‘l mal voler s’aggueffa,
ei ne verranno dietro più crudeli
che ‘l cane a quella lievre ch’elli acceffa».

E come l’un pensier de l’altro scoppia,/così nacque di quello un altro poi,/che la prima paura mi fé doppia.” Chi soffre d’ansia o attacchi di panico lo sa bene: a un pensiero negativo, seguono altri pensieri negativi più grandi e complessi.
Dante, ripensando ad Alichino e Calcabrina e a quanto successo in precedenza, li associa alla rana e al topo (la pece in questo caso è il nibbio) e in lui la paura cresce ancora di più, fino a pensare: se loro due sono stati così sconfitti, torneranno sicuramente più incattiviti.

Quello su cui vogliamo soffermarci, probabilmente perché noi per primi soffriamo molto d’ansia e di attacchi di panico, è: Dante è terrorizzato solo ed esclusivamente da un pensiero intrusivo. È vero, si trova all’Inferno, questa sensazione in lui è sempre stata presente, seppur con alcuni spruzzi di ilarità, ma al momento non gli fa più paura quello che ha davanti, bensì qualcosa che potrebbe accadere.

È quasi rassicurante vedere come in sette secoli (chi sta scrivendo è discalculica, quindi spera di aver fatto bene il conto) per noi uomini poco sia cambiato: i pensieri negativi ci immobilizzano, ingabbiano, ci fanno tremare il corpo e il cuore. A volte provocano ansia, timore, vero e proprio panico e per quanto possiamo lavorarci, nel momento in cui arrivano li vediamo reali. Non pensiamo che siano solo frutto della nostra immaginazione, di una preoccupazione latente, per noi sono veri già dal momento in cui la nostra mente partorisce certe immagini.

Già mi sentia tutti arricciar li peli
de la paura e stava in dietro intento,
quand’io dissi: «Maestro, se non celi

te e me tostamente, i’ ho pavento
d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;
io li ‘mangio sì, che già li sento».

E quei: «S’i’ fossi di piombato vetro,
l’imagine di fuor tua non trarrei
più tosto a me, che quella dentro ‘mpetro.

Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ‘ miei,
con simile atto e con simile faccia,
sì che d’intrambi un sol consiglio fei.

S’elli è che sì la destra costa giaccia,
che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,
noi fuggirem l’imaginata caccia».

Dante ammette a Virgilio che è terrorizzato, ha paura che le Malebranche possano tornare e il Maestro risponde al Poeta in un modo così magnifico che non vorremmo neanche spiegarlo, per non rovinare le parole utilizzate da Dante stesso. Purtroppo, però, in questo caso dobbiamo ricorrere alla parafrasi: “Se io fossi uno specchio non rifletterei la tua immagine esteriore più di quanto mi accorgo di quella interiore”.

Sarà capitato a molti di accorgerci dei veri sentimenti di chi ci sta accanto, anche se quella persona non li ha esternati. Quante volte abbiamo chiesto a un amico, un partner (utilizziamo il neutro) se va davvero tutto bene, forse semplicemente perché abbiamo visto un’ombra nel suo sguardo?
La nostra guida interiore si comporta allo stesso modo: sa perfettamente cosa ci passa per la testa ancora prima di averne noi coscienza.

Così Virgilio, che vede le angosce di Dante, lo rassicura dicendogli che dovranno continuare a scendere per la prossima bolgia. Domanda: secondo voi Virgilio condivide tali preoccupazioni? Secondo noi no. Quando dice: “noi fuggierm l’imaginata caccia”, infatti, dà per vero quello che potrebbe accadere, ma allo stesso tempo si batte l’attenzione sul fatto che il tutto è solo immaginato da loro.

La nostra guida ha sempre la soluzione per tranquillizzarci e mantenerci al sicuro, ma anche se sa che è tutto frutto della nostra fantasia, lo prende per vero, proprio come una madre rassicura il figlio dopo un incubo. Il paragone con una madre non è casuale, dopo vedrete il perché.

Già non compié di tal consiglio rendere,
ch’io li vidi venir con l’ali tese
non molto lungi, per volerne prendere.

Lo duca mio di sùbito mi prese,
come la madre ch’al romore è desta
e vede presso a sé le fiamme accese,

che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta;

e giù dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia,
che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.

Non corse mai sì tosto acqua per doccia
a volger ruota di molin terragno,
quand’ella più verso le pale approccia,

come ‘l maestro mio per quel vivagno,
portandosene me sovra ‘l suo petto,
come so figlio, non come compagno.

Non riescono a terminare il discorso, che intravedono i demoni arrivare con le loro ali, ma in quel momento Virgilio prende su di sé Dante e insieme scappano vero il fondo della bolgia.
Dante paragona ciò che fa Virgilio a una madre che svegliatasi improvvisamente nel cuore della notte per il rumore del fuoco, prende in braccio il figlio e lo salva dalla furia delle fiamme e, disinteressandosi di ciò che indossa, scappa verso la strada.
Così Dante si sente più come un figlio tra le braccia di Virgilio che come un suo compagno di viaggio.

Ora apriamo un piccolo paragrafo che sappiamo potrebbe rendervi un po’ suscettibili: avete avuto mai la sensazione di essere protetti da un potere superiore? Vi è mai capitato di ricevere assistenza, o di essere stati salvati in extremis da qualche entità o energia? O semplicemente, vi siete mai ritrovati come miracolati da qualcosa, ma non sapreste neanche spiegarvi cosa?

Ecco, a noi è successo parecchie volte: nei momenti più neri e di crisi è sempre successo qualcosa che ci ha riportati alla luce, come se fossimo stati assistiti da un potere superiore. La sensazione che ci dà l’immagine di Dante stretto al petto di Virgilio è la stessa che abbiamo avvertito in quei momenti: rassicurazione, fiducia, amore.
Ecco perché crediamo che non sia un caso il paragone con la madre: il bambino si sente allo stesso identico modo ogni volta che viene preso in braccio dopo un pianto.

Ovviamente dobbiamo considerare il periodo in cui è vissuto Dante, dove era la madre a prendersi cura dei figli. Oggigiorno gli stessi sentimenti positivi sono dati anche da uno o più padri.

A pena fuoro i piè suoi giunti al letto
del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle
sovresso noi; ma non lì era sospetto:

ché l’alta provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
poder di partirs’indi a tutti tolle.

Nel momento esatto in cui i due poggiano i piedi a terra, però, scoprono che non c’era alcun motivo di avere paura perché la stessa Provvidenza che ha scelto i demoni come guardiani di quella bolgia, ha fatto in modo che non potessero mai allontanarsi da lì.

Ora, notando anche i progressi del nostro percorso spirituale non possiamo fare altro che vedere quanto questo rappresenti anche il nostro mondo interiore: una volta visto un demone – l’ipocrisia, l’astuzia, l’invidia… – è normale continui a farci paura, insomma, nessuno si trova bene di fronte al fatto che è governato da tali entità, giusto? Ma è anche vero che una volta osservato, una volta che siamo stati a stretto contatto con una determinata emozione e abbiamo capito da dove proviene e perché sta lì, difficilmente riesce a farci di nuovo lo stesso male di prima. Anzi, più la conosciamo e prendiamo le distanze, più questa energia non riesce in alcun modo a raggiungerci.
Certo, ci sono delle sfumature tra questo dire e quella che è poi la realtà, ma ci arriveremo passo passo.
 
Là giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta.

Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
che in Clugnì per li monaci fassi.

Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia.

Oh in etterno faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
con loro insieme, intenti al tristo pianto;

ma per lo peso quella gente stanca
venìa sì pian, che noi eravam nuovi
di compagnia ad ogne muover d’anca.


Una volta arrivati, ecco che Dante già osserva attentamente cosa ha davanti agli occhi: le anime camminano molto lentamente, e anche se dal loro incedere e lamentarsi sembrano stanche, sconfitte, nota la loro faccia dipinta e la tunica risplendente d’oro.
Dante si occupa di studiarli bene, ma si accorge che il loro procedere è così lento che il normale passo dei due visitatori fa sì che abbiano davanti anime sempre diverse.

Nelle varie interpretazioni si danno due spiegazioni sul perché le anime siano “dipinte”: c’è chi sostiene sia per ricalcare l’oro lì presente, chi invece crede che le anime fingano il loro essere penitenti.
Noi personalmente crediamo a entrambe le spiegazioni: i cappucci di questi dannati, infatti, nascondono il loro sguardo, proprio perché è l’unica parte del corpo che se ben vista, non può mentire.     
Gli occhi sono lo specchio dell’anima”, inutile nasconderlo quindi le anime che lì camminano, non mostrando il punto più schietto del nostro corpo, non ci fanno capire quanto effettivamente stiano patendo la pena.
Dall’altro punto, la tunica d’oro è in risalto, sì, ma non spiega il perché dei loro passi lenti, deve esserci qualcos’altro che li rallenta, proprio come se l’oro fosse solo nel colore (dipinto) e non nel materiale.
Infatti Dante ci dice che dentro le tuniche sembrano essere di piombo quanto sono pesanti.

Perché la scelta dell’oro? Oggigiorno sappiamo che la parola “ipocrita” deriva dal tardo latino “hypocrĭta” e dal greco “ὑποκριτής”, entrambi dal significato di “attore”. Riprendono l’etimologia di “ipocrisia” che dalle varie forme antiche del greco vuol dire: “simulazione”, “separare/distinguere”, “sostenere una parte/recitare/fingere”.
Insomma, non c’è dubbio che la persona ipocrita è maestra nell’arte della finzione. Ai tempi di Dante, però, si pensava che la parola derivasse dall’unione delle parole greche “hyper” (“sopra”) e “crisis” (oro) a ricalcare come la persona ipocrita risulti sfavillante e meravigliosa solo all’esterno.

Tra questa scelta di vestiario e l’andamento lento, possiamo già capire una cosa importante: l’ipocrisia rallenta la crescita.
Fingere di essere in un modo, di amare qualcosa o qualcuno non fa altro che farci perdere la nostra più naturale essenza.
Non condanniamo l’ipocrisia perché sappiamo che appartiene a tutti noi (come vi abbiamo accennato nei canti precedenti, più scendiamo all’Inferno, più troviamo peccati relativi al nostro quotidiano) e perché spesso è nasce da una paura. Nelle Scritture l’apostolo Pietro, per esempio, rinnega il Cristo proprio per paura, non per cattiveria o qualsiasi altro motivo di stampo malizioso.

A questo punto del nostro cammino interiore, però, dobbiamo scendere a patti col fatto che mentire rallenta la nostra evoluzione, non ci permette di stare davvero bene. Di conseguenza il primo passo verso quello che sarà la nostra purificazione nel Purgatorio è proprio smetterla di raccontarsela, promettersi che non si può più mentire.

Per c’hio al duca mio: «Fa che tu trovi
alcun ch’al fatto o al nome si conosca,
e li occhi, sì andando, intorno movi».

E un che ‘ntese la parola tosca,
di retro a noi gridò: «Tenete i piedi,
voi che correte sì per l’aura fosca!

Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi».
Onde ‘l duca si volse e disse: «Aspetta,
e poi secondo il suo passo procedi».

Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
de l’animo, col viso, d’esser meco;
ma tardavali ‘l carco e la via stretta.

Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco
mi rimiraron sanza far parola;
poi si volsero in sé, e dicean seco:

«Costui par vivo a l’atto de la gola;
s s’e’ son morti, per qual privilegio
vanno scoperti de la grave stola?».

Poi disser me: «O tosco, ch’al collegio
de l’ipocriti tristi se’ venuto,
dir chi tu se’ non avere in dispregio».

E io a loro: «I’ fui nato e cresciuto
sovra ‘l bel fiume d’Arno a la gran villa,
e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto.

Ma voi chi siete, a cui tanto distilla
quant’i’ veggio dolor giù per le guance?
e che pena è in voi che sì sfavilla?».


Dante vuole fermarsi a parlare con un’anima e chiede a Virgilio di mostrargli quella che secondo lui è più intenzionata a parlare. Non fanno in tempo a cercarne che una, riconosciuto l’accento toscano, li urla di fermarsi e attenderla, perché ha il desiderio di parlare.
Mentre si avvicinano l’anima chiede a quella accanto chi siano quei due, perché sembrano vivi ma anche se fossero morti, come mai non hanno la tunica che rallenta i movimenti? Queste domande, però, non le pongono ai due, – che comunque vengono ascoltate – anzi, chiedono a Dante chi sia. Ovviamente lui risponde di essere fiorentino e domanda il perché della loro pena.

Facciamo attenzione anche ad altro: qui Dante riesce a vedere sotto il cappuccio, ma lo sguardo è sempre obliquo, non rimangono a guardarsi fissi e questo è tipico degli ipocriti: chi mente non ti guarda mai fisso, proprio perché sa che potrebbe essere scoperto in poco tempo.

E l’un rispuose a me: «Le cappe rance
son di piombo sì grosse, che li pesi
fan così cigolar le lor bilance.

Frati godenti fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi

come suole esser tolto un uomo solingo,
per conservar sua pace; e fummo tali,
ch’ancor si pare intorno dal Gardingo».


In sole tre terzine, Dante spiega molto delle anime perché il loro ricordo è ancora vivo nel momento in cui è stata scritta e poi pubblicata la Commedia.
I due sono Catalano de’ Malavolti (1210, circa - 1285) e Loderingo degli Andalò (1210 circa - 1293), entrambi bolognesi e fondatori della Milizia della Beata Vergine Maria, nota organizzazione conosciuto come “Ordine Cavarellesco dei frati Gaudenti”. Questo Ordine, approvato da Papa Urbano IV (1195 – 1264) nel 1261, era composto da membri, sia laici che del clero, dell’aristocrazia del tempo che come obblighi avevano la castità coniugale, voti di obbedienza e protezione di orfani e vedove. Anche se la violenza non è un’azione retta nella vita di un cristiano, loro potevano utilizzarla contro chiunque avesse violato la giustizia o la pace pubblica. Non potevano rivestire cariche pubbliche, ma sia Catalano che Loderingo sono stati contemporaneamente podestà di Firenze, carica che di solito si dava a una persona sola.

Anche se il termine “gaudente” all’epoca veniva utilizzato per tutte quelle persone che servivano Cristo con entusiasmo, per il loro Ordine è utilizzato in termine dispregiativo perché i membri pensavano più ad avere una bella vita, ricca di eccessi e di potere.

Viene facile, quindi, capire perché sono stati infilati da Dante nel girone degli ipocriti, viene meno facile forse chiederci se stiamo davvero vivendo la nostra vita come diciamo si dovrebbe fare.
Ci spieghiamo meglio: il giudizio fa parte dell’essere umano, è inutile nascondere questo dato oggettivo. Diamo le nostre opinioni indipendentemente dal fatto che siano state richieste, o verso chi le stiamo esternando. Con l’avvento dei social, poi, ci sentiamo in diritto di farle conoscere anche a un perfetto sconosciuto.
Ebbene, quanto di ciò che scriviamo e diciamo, vive dentro di noi? Quando commentiamo facendo notare errori grammaticali nel post di qualcuno, per esempio, utilizziamo la stessa solerzia in ciò che comunichiamo verbalmente o non? Quando diamo consigli d’amore, siamo pronti a seguirli noi per primi? Quando pretendiamo rispetto da qualcuno, siamo pronti a darlo a chi non ci va a genio?

Potremmo continuare all’infinito, ma preferiamo interrompere qui per non dilungarci inutilmente in un concetto fin troppo chiaro: viviamo costantemente nell’ipocrisia. Fingiamo una vita che non abbiamo, mostriamo una felicità che non ci rappresenta, nascondiamo nell’ironia la nostra paura del fallimento.  

Io cominciai: «O frati, i vostri mali…»;
ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse
un, crocifisso in terra con tre pali.

Quando mi vide, tutto si distorse,
soffiando ne la barba con sospiri;
e ‘l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,

mi disse: «Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenia
porre un uom per lo popolo a’ martìri.

Attraversato è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
qualunque passa, come pesa, pria.

E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio
che tu per li Giudei mala sementa».

Allor vid’io maravigliar Virgilio
sovra colui ch’era disteso in croce
tanto vilmente ne l’etterno essilio.


Dante vorrebbe parlare di altro, probabilmente dei peccati dei due, ma viene interrotto per la visione di un’anima crocifissa a terra. Quando i loro occhi si incontrano, l’anima sbuffa e si contorce.
Catalano, che si accorge della scena, dice a Dante che quel peccatore è Caifa: il sacerdote che consigliò ai Farisei di crocifiggere Gesù. Assieme a lui patiscono la stessa pena – crocifissi a terra, con tutte le anime degli ipocriti costrette a passare loro sopra – anche il suocero Anna e tutti i membri del Sinedrio.
Ovviamente Dante li mette nel girone degli ipocriti perché la loro decisione non fu presa per ordine pubblico, ma solo per togliere di mezzo la figura del Cristo che incuteva timore alle persone del loro rango.
Così ora sono costretti a passare l’eternità sopportando – letteralmente – il peso dell’ipocrisia su di loro.
Anche Virgilio è rimasto meravigliato da quella visione.

Leggendo il tutto non possiamo notare qualcosa che ci ha profondamente colpiti: il peso più grande per ogni ipocrisia lo portiamo quando mentiamo per un nostro tornaconto personale.
Ok, abbiamo spiegato anche prima quanto le bugie rallentino la crescita interiore, ma notando la pena dei condannati è come se non fosse così tanto terribile, soprattutto se rapportata ai membri del Sinedrio.
La nostra moralità, però, si allarma – o almeno dovrebbe – quando mentiamo nei confronti degli altri, quando li mostriamo come non sono, spesso facendo girare voci in negativo o accusandoli di chissà quale crimine mai commesso.
Se poi ci volgiamo alla nostra quotidianità, riscopriamo che gli ipocriti iniziano sempre col mettere in giro voci su altri, ad accusare chiunque non vada loro a genio, solo per cercare di risplendere un minimo.

Non nascondiamoci dietro a un dito: tutti mentiamo, ma finché è qualcosa che danneggia solo la nostra maturità possiamo chiudere un occhio. Quando, però, nuoce a chiunque altro – dallo sconosciuto alla persona più fidata – lì, siamo tutti i membri del Sinedrio.

Poscia drizzò al frate cotal voce:
«Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
s’a la man destra giace alcuna foce

onde noi amendue possiamo uscirci,
sanza costrigner de li angeli neri
che vegnan d’esto fondo a dipartirci».


Virgilio chiede all’anima se esiste una strada, verso destra, che possono prendere per poter andare avanti, senza dover tornare indietro perché non vogliono più rivedere i diavoli.
Facciamo attenzione al verso: “s’a la man destra giace alcuna foce”. La “man destra”, soprattutto all’epoca, era considerata la via giusta, quella che bisognava prendere a forza. Si sa come erano considerati i mancini, quindi è inutile spiegarlo.
In questo senso, quindi, Virgilio chiede all’anima se ci sta un modo giusto per poter andare via da lì, senza però tornare sui loro passi. Osserviamo la risposta…

Rispuose adunque: «Più che tu non speri
s’appressa un sasso che da la gran cerchia
si move e varca tutt’i vallon feri,

salvo che ‘n questo è rotto e nol coperchia;
montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia».


L’anima conferma che esiste un ponte che attraversa tutti quei cerchi ed è molto più vicino di quanto credano. Gli ricorda, però, tale ponte è crollato proprio in quel punto con la morte di Cristo e quindi devono risalire lungo la parete rocciosa.

Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: «Mal contava la bisogna
colui che i peccator di qua uncina».

E ‘l frate: «Io udi’ già dire a Bologna
del diavol vizi assai, tra ‘ quali udi’
ch’elli è bugiardo e padre di menzogna».

Appresso il duca a gran passi sen gì,
turbato un poco d’ira nel sembiante;
ond’io da li ‘ncarcati mi parti’

Dietro a le poste de le care piante.


Se vi ricordate, nei canti XXI e XXII, i diavoli avevano detto qualcosa di completamente diverso a Virgilio, che infatti non esita a riferirlo a Catalano.
Quest’ultimo, però, in tono un po’ canzonatorio risponde che è da quando stava a Bologna che è a conoscenza del fatto che il diavolo è bugiardo e padre della menzogna.
Virgilio, visibilmente infastidito e irritato dal fatto che si sia fatto abbindolare dai diavoli, torna verso la parete rocciosa, seguito da Dante.

Abbiamo da dire ancora un po’ di cose, quindi iniziamo...

Anche la nostra guida interiore si fa incantare dai pensieri intrusivi? Ovvio che no.
In precedenza abbiamo visto come Dante abbia avuto il sentore dell’inganno, mentre la guida era abbastanza sicura di quello che stava facendo. Allora come mai è stata così soggiogata?
Rispondiamo sempre rapportando le immagini dantesche alla nostra esperienza. Ebbene, quando si instilla in noi il dubbio di qualcosa, quando i “diavoli” iniziano a parlarci e ci portano nei loro inganni, è davvero difficile prenderne le distanze. Possiamo anche intuire stiano solo esagerando, che il tutto non è vero, ma fidatevi: più lo facciamo, più questi pensieri diventano reali, tanto da trasformarsi in vere e proprie sensazioni.

Facciamo un esempio: quante volte, di fronte a un esame o a un colloquio di lavoro, in preda all’ansia, abbiamo creduto che tutto sarebbe andato male? Un pensiero intrusivo ha fatto capolino, ci ha detto che non siamo in grado, che siamo incapaci, nonostante abbiamo passato mesi interi a prepararci, nonostante abbiamo tutte le competenze e l’esperienza necessarie.
Abbiamo provato a rilassarci, forse anche a meditare, a calmare il nostro respiro, eppure quella sensazione proprio non è riuscita a passare, finché l’esame non ha dato il suo trenta e il colloquio non è andato a buon fine.

Ecco, allo stesso modo è facilissimo confondere quella che è la nostra guida interiore quando abbiamo a che fare con certi tipi di pensieri, ed ecco perché l’arcano è svelato solo quando ci mettiamo faccia a faccia con l’ipocrisia: tutti sappiamo che spesso la mente ci mente, eppure dobbiamo sbatterci la testa finché non verrà la prova finale – che viene per tutti, fidatevi – del grande impostore, come amiamo chiamarlo, e allora lì vediamo quanto riesce a plasmare la verità a suo piacimento.

Concentriamoci anche su altro, riguardando le parole di Catalano: gli ipocriti utilzzano spesso un linguaggio che Dante mette per iscritto utilizzando perifrasi: si esprimono, cioè, con grandi immagini e parole ricercate solo per esprimere un concetto basilare. Abbiamo, infatti, notato quanto alla fine della fiera Catalano non abbia rivelato chissà che.

Ecco, nel mondo materiale gli ipocriti agiscono allo stesso modo: la loro comunicazione rimane superficiale, anche se possiamo non accorgercene per i termini ricercati a cui attingono. Stessa cosa vale dal lato spirituale, per il nostro Impostore, appunto. Fateci caso: gli scenari apocalittici sono sempre paure elementari, ingigantite solo da una fantasia ricercata.

Il prossimo mese, nel canto successivo, incontreremo Vanni Fucci con la sua profezia data per vendetta.

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