martedì 2 marzo 2021

#Costume&Società: Positività tossica

"Viviamo in un'epoca in cui si è titolati a vivere solo se perfetti. Ogni insufficienza, ogni debolezza, ogni fragilità sembra bandita. Ma c'è un altro modo per mettersi in salvo, ed è costruire [...] un'altra terra, fecondissima, la terra di coloro che sanno essere fragili."
- Alessandro D'Avenia in "L'arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita" (2019).

Non siamo proprio sicure che "rimanere positivi sempre e comunque" sia buono.
Fossimo solo noi a storcere il naso davanti all'insistente positività che aleggia nella società odierna, sarebbe più facile e forse comprensibile prenderci per pazze, ma sappiamo bene tutti che il mondo così tanto patinato e filtrato dei social network con tutti i suoi personaggi che si porta dietro e che ci impone costantemente un atteggiamento positivo che dovremmo avere, nella quotidianità non regge.
Dire che "non regge" è un eufemismo.Viviamo in una società di depressi: secondo un articolo dell'OMS del 30 Gennaio 2020, più di 264 milioni di persone al mondo soffrono di depressione, e sono quasi 800 mila i casi di suicidio annuali nel mondo. Anche dire che l'idea di un pensiero e di un atteggiamento perennemente positivo "fa acqua da tutte le parti" è un eufemismo. Ovviamente, tra l'altro, bisogna tener conto anche del fatto che la pandemia ha alzato vertiginosamente questi numeri.

"Now if happiness is always measured by the life you design, that car on the drive, then you should feel better than ever, but you know as well as I, it’s all lies.
(Ora se la felicità è sempre misurata dalla vita che progetti, quell’auto sulla strada, allora dovresti sentirti meglio che mai, ma tu lo sai come lo so io, sono tutte bugie.)"
- Louis Tomlinson in Fearless (dall'album "Walls", 2020).

La scomoda verità è che amiamo scappare dai nostri problemi, dalle situazioni che ci circondano; troviamo escamotage su escamotage per non pensare o per non accettare la circostanze che viviamo.
Siamo il prodotto di una società digitale che ci ha sempre comprato con delle idee di felicità che non esistono e che ci ha sempre venduto di tutto con un sorriso a trentadue denti e un entusiasmo troppo fuori dal comune per essere genuino.
È così da sempre, ma nel ventunesimo secolo si sente questa cosa più che mai; si sente così tanto che in contrapposizione al questa positività tossica sono nati e nascono costantemente come funghi personaggi e pagine che promuovono - sicuramente senza malizia o cattiveria - l'esaltazione del dolore e la romanticizzazione delle malattie mentali.
Esempio lampante di quanto non siamo umanamente in grado di vedere e riconoscere le sfumature di grigio sono l'ossessione per il corpo sano e in forma da una parte, e i "movimenti" - se così possono essere chiamati - ProMia (pro bulimia) e ProAna (pro anoressia) dall'altra.

Abbiamo paura dell'equilibrio e delle mezze misure, perché sappiamo che se fossimo equilibrati staremmo bene e non possiamo accettare di stare bene.
D'altronde siamo pur sempre i figli di una società sensibile a tutto che rompe per la prima volta una miriade di schemi e preconcetti dati per scontati per secoli, ma siamo anche i figli di padri cresciuti da genitori che imponevano ai figli di "fare gli uomini e smettere di essere delle femminuccie" e madri che dovevano imperativamente rivestire il ruolo della Donna con la "D" maiuscola e che non doveva essere altro se non madre e moglie. Non c'è niente di equilibrato in tutto ciò.

Ma allora, dato che siamo considerati la generazione per antonomasia più rivoluzionaria e coraggiosa di tutte, perché non avere coraggio anche in questo?
Rompiamoli un'altra volta, questi schemi: siamo umani e siamo fragili, stiamo molto spesso male, non ci piacciamo e non abbiamo certezza di niente.
Vorremmo superare tutto ciò ma non ci riusciamo, perché ci è stato insegnato che ignorando le nostre insicurezze queste andranno via, ma ci è fin troppo chiaro che non è così che funziona, ne abbiamo una prova fin troppo forte nelle generazioni precedenti.
Che cosa ci blocca? Probabilmente l'idea che la cura sia più dolorosa della malattia o forse ancora, la consapevolezza che potremmo seriamente cambiare la società per sempre.




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