venerdì 14 maggio 2021

#DivinaCommedia: Canto I

Come già spiegato nell’introduzione a questo nuovo appuntamento, cercheremo di non parlarvi della Divina Commedia dal punto di vista classico, ma solo ed esclusivamente in chiave esoterica.

Vi assicuriamo che leggerla anche da questo punto di vista, vi darà una conoscenza più ampia, accompagnata da una sensazione di estrema pienezza. 


“Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.”

Ovviamente è la terzina che tutti noi sappiamo a memoria. La selva oscura è un’immagine che ci accompagna sempre ogni volta che ci approcciamo a un percorso iniziatico. Biancaneve trova la casa dei sette nani dopo essersi persa nel bosco oscuro, e persino Battisti canta: Perdermi in questo bosco volli io. Secondo il padre della psicoanalisi moderna, Carl Gustav Jung, il bosco rappresenta il fondersi tra psiche inconscia e conscia. Il bosco è pieno di alberi, e fin dalla mitologia più antica, essi rappresentano il portale di comunicazione tra il nostro interno (le radici nascoste sotto il suolo), l’esterno della realtà (il tronco) e la proiezione verso l’alto (i rami). La linfa vitale dell’albero prende nutrimento dal sottosuolo tramite le radici, scorre per tutto il tronco e trova la sua manifestazione sui rami, tramite le foglie, i fiori e i frutti.

Se è vero che siamo solo Uno (ed è vero, fidatevi) il processo dell’albero è tale e quale al nostro: ogni cosa che facciamo, ogni decisione presa, è frutto del nostro inconscio. Lui comanda circa il 90% della nostra vita, così noi in ogni momento manifestiamo ciò che è immagazzinato lì dentro. La natura, la vegetazione, ci dona ovviamente la vita e tutto il necessario alla nostra sopravvivenza, ma può essere anche estremamente distruttiva o sterile. Sta a noi prenderci cura di essa, e quindi di noi stessi.

Alcuni di noi prestano anche attenzione a quel “nostra”. Dante non dice: “Nel mezzo del cammin della mia vita”, ma "di nostra". Perché utilizza la prima persona plurale? Tra l’altro poco dopo utilizza la prima persona singolare:

“Tant’è amarache poco è più morte;     
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i v’ho scorte.”

Dante inizialmente si mette nei panni dell’intera umanità. Sa benissimo che prima o poi, nel bel mezzo di una nostra vita (o incarnazione, per chi crede alle vite precedenti), ci ritroveremo a fare i conti con il nostro interno. E dopo aver descritto quanto sia terrificante la selva, tanto che nonostante lui scriva dopo aver visto l’intero paradiso, al solo ricordo ne è di nuovo impaurito, (Ahi quanto a dir qual era è cosa dura/esta selva selvaggia e aspra e forte/che nel pensier rinova la paura!) comincia a parlare al singolare. Perché?

Perché in questo momento Dante prende il ruolo di Maestro spirituale. Ci sta dicendo: sì, la selva è terribile, il momento della vita in cui tutto sembra sfuggire al vostro controllo è micidiale, ma state calmi e prestate attenzione: io ho vissuto la vostra stessa situazione, io l’ho affrontata e ora vi parlo di tutto ciò che ho visto.

“Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,     
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

Ma poi ch’i fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compiunto,

guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.”

Dante non ha idea di come ci si sia ritrovato, proprio come noi non sappiamo come ci ritroviamo nel momento in cui proviamo il dolore che non ha alcun appiglio. Siamo totalmente in balia del sonno, addormentati, dove ogni nostra azione sembra non essere spinta da alcun moto di consapevolezza. Sant’Agostino diceva: “cadere nel sonno dell’Anima è come abbandonare Dio”, e anche Dante fa seguire l’immagine del sonno all’abbandono di una via verace, sincera, illuminata. Ma, e quel ma è un avversativo potentissimo, nel momento in cui stiamo nel nostro inferno personale (la selva, il bosco, l’interno più profondo di noi stessi), allora notiamo che stiamo solo ai piedi di un colle. Che alla fine di quella lunga valle che ci ha addolorato fortissimamente il cuore, c’è un’altura e che se guardiamo ancora più in alto, troviamo il Sole (Dio) a illuminare il tutto. Alzando gli occhi al cielo, proprio come l’albero alza i suoi rami verso la luce del sole, vediamo che in realtà attorno a noi c’è solo luce.

Nei versi successivi, che non vi citiamo solo per non allungare troppo l’articolo, Dante si acquieta poco alla volta, ricordandosi che dopo ogni notte avviene l’alba. Sta nel suo dolore, fermo, immobile, attendendo che passi. Proprio come un naufrago che, scampato alla tempesta, si ritrova in riva e osserva il mare, incredulo di essere scampato alla morte.

“Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ‘mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.”

Quando Dante, e chiunque di noi, vuole cominciare il cammino spirituale, pensa di sapere già tutto e crede che sia veramente facile. Il sole sta proprio lì, dietro quel colle, basta camminare. Invece, ci ritroviamo la via bloccata dalle tre fiere: la lonza, il leone e la lupa. Sappiamo bene che esse rappresentano i tre vizi: lussuria, superbia e avarizia. Seppure per i più esperti non siano solo questi, la cosa fondamentale non è conoscere quali vizi rappresentino, solo sapere che qualsiasi vizio ci sia, noi non possiamo scacciarlo o arginarlo. “Come può uno scoglio arginare il mare”, direbbero Mogol-Battisti.) Le tre fiere che sono dentro di noi non possono essere eliminate, ignorate o affrontate, solo viste. Ed è infatti in quel momento che Dante vede Virgilio: la sua prima guida.

“A te convien tenere altro viaggio”,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
“se vuò campar d’esto loco selvaggio;

ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ‘mpedisce che l’uccide;

e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ‘l pasto ha più fame che pria.”

Ogni volta che pensiamo di affrontare un nostro “peccato” ignorandolo, o buttandoci dentro e combattendolo, noi lo stiamo solamente sfamando. Stiamo dando del cibo a una parte di noi che è perennemente affamata, che brama sempre di più. In seguito Virgilio spiega a Dante che più cerchiamo di sfamare queste bestie illudendoci di farle restare buone e calme, più esse danno vita ad altre bestie. Così Virgilio invita Dante a seguirlo, dicendogli che l’unico modo per arrivare al Sole (Dio) è attraversare l’Inferno, con le sue grida, i suoi dolori immensi, c'è così tanta infelicità che le anime lì dentro bramano un’altra morte. Virgilio ripone piena fiducia in Dante, perché sa che una volta attraversato ogni girone, una volta compreso cosa c’è al suo interno, lui potrà elevarsi e vedere Dio.

“Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio,

che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di San Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti.

Allor si mosse, e io li tenni dietro.”

A quelle parole, Dante accetta. Il sapere che andrà verso la porta di San Pietro, lo convince a partire per il viaggio. Ogni iniziato, alla promessa del totale risveglio spirituale, accetta di procedere lungo il viaggio. Siamo così attratti dalla luce, che inizialmente non temiamo l’inferno. Quel che realmente accade, lo ritroveriamo già nel secondo canto.

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