sabato 24 settembre 2022

#DivinaCommedia: Canto XVII

Nel canto precedente abbiamo intravisto la figura spaventosa di Gerione e in questo lo osserviamo meglio.     
Anche se stiamo nel girone degli usurai, infatti, ciò che si nota davvero del canto è la paura di Dante ma non nei confronti del peccato, bensì dell’ignoto. Quasi non vediamo l’usura, come questa ci appartenga nel quotidiano o nell’ambiente. Probabilmente perché per farlo dobbiamo scavare molto in profondità.
Permettiamoci di domandarci: quanto mi aspetto dagli altri? Se do un aiuto o una mano, lo faccio davvero per amore, o voglio che mi sia ridato in cambio molto di più di quanto ho dato?     
Vi ricordiamo - e lo faremo anche dopo - che analizziamo la Divina Commedia dal punto di vista esoterico, quindi ometteremo le immagini chiare. Ricordiamo inoltre che ogni personaggio che vediamo, da Dante e Virgilio a ogni anima presente, sono solo piccole o grandi parti di noi stessi.

 Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l’armi!
Ecco colei che tutto ‘l mondo appuzza!»

Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
vicino al fin d’i passeggiati marmi.

E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e ‘l busto,
ma ‘n su la riva non trasse la coda.

La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto;

due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.

Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte.

Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi

lo bivero s’assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ‘l sabbion serra.

Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in su la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava.

Lo duca disse: «Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che colà si corca».

Però scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella.

Fino a qui Dante ci ha dato una descrizione accurata di Gerione, personaggio della mitologia classica. Era figlio di Crisaore e Calliroe, ucciso da Ercole perché il mostro nutriva i suoi buoi con carne umana. Il volto è di “uomo giusto”, all’apparenza, quindi, non ha nulla che non vada, ma il corpo è quello di un serpente – un richiamo all’inganno -. Gerione, quindi rappresenta la frode, quell’atteggiamento benevolo che ha una persona esternamente innocua, ma che in realtà nasconde, imbroglia la propria vittima. Il tutto è coronato dalla coda di uno scorpione, e non ci vuole molto a fare il collegamento con “La rana e lo scorpione”, la famosa favola attribuita a Esopo.
Lo scorpione punge perché è nella sua natura, ed è così anche la nostra di esseri umani. Ci pensiamo guidati dalle più buone intenzioni, ma nella realtà ci aspettiamo sempre qualcosa in cambio, il contentino o il premio per aver fatto una buona azione. “Ho aiutato questa persona, come minimo ora mi aspetto che...”. Possiamo scuotere la testa, certo, ma il risentimento che proviamo per quella persona che ci ha ferito nonostante noi abbiamo dato tutto, ci conferma che non l’avevamo fatto per amore incondizionato!

E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.

Quivi ‘l maestro «Acciò che tutta piena
esperïenza d’esto giron porti»,
mi disse, «va, e vedi la lor mena.

Li tuoi ragionamenti sian là corti;
mentre che torni, parlerò con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti».

Così ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta.

Virgilio dice a Dante che c’è solo un modo per apprendere davvero questo peccato: procedere da solo. Ecco perché Dante stesso si soffermerà poco con le anime, sia perché consigliato dalla propria guida: “li tuoi ragionamenti sian là corti”, sia perché solo noi stessi possiamo rivedere determinati atteggiamenti nella vita di tutti i giorni.
Se facciamo un favore a qualcuno, se prestiamo qualcosa a qualcuno, solo noi possiamo sapere perché lo stiamo facendo. E attenzione al raccontarsela: spesso vediamo le vere intenzioni dopo anni.
Così Dante si avvicina alle anime, Virgilio rimane con Gerione, accordandosi sul viaggio che dovranno intraprendere a breve.

Per li occhi forza scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:

non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col pié, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.

Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne’ quali ‘l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi

che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch’avea certo colore e certo segno,
e quindi par che ‘l loro occhio si pasca.

E com’io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che d’un leone avea faccia e contegno.

Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un’altra come sangue rossa,
mostrando un’oca bianca più che burro.

Dante osserva le anime: la sabbia infuocata cade su di loro, tanto che tentano – invano – di scacciarla dimenando le proprie braccia. Ricordano i cani quando provano a scacciare mosche o insetti in generale. In effetti, nella descrizione di Dante sono presenti molti animali, forse perché certi comportamenti sono istintivi nell’essere umano. Sono costretti a rimanere seduti, immobili, per questo vengono comunque colpiti. Il Poeta avverte il loro dolore dagli occhi, pieni di lacrime, terrorizzati.
Non riconosce nessuno dei presenti – perché è veramente difficile ammettere le proprie intenzioni – ma osservando più attentamente, nota che portano al collo una borsa – simbolo del loro peccato – con i colori della propria casata di appartenenza. Troviamo il casato dei Gianfigliazzi e degli Obriachi, entrambi fiorentini.

E un che d’una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: «Che fai tu in questa fossa?

Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
sappi che ‘l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco.

Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ‘ntronan li orecchi
gridando: ‘Vegna ‘l cavalier sovrano,

che recherà la tasca con tre becchi!’».
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che ‘l naso lecchi.

E io, temendo no ‘l più star crucciasse
lui che di poco star m’avea ‘mmonito,
torna’mi in dietro da l’anime lasse.

L’unica anima che gli parla appartiene alla casata degli Scrovegni di Padova: Reginaldo degli Scrovegni. Quest’ultimo riferisce a Dante che le anime attorno a lui sono tutte fiorentine, e che presto si unirà a loro anche Giovanni Buiamonte dei Becchi.
Dante lo sbeffeggia chiamandolo “cavalier sovrano”, per denunciare quanto l’usura faccia parte anche, e soprattutto, delle casate nobili. In effetti sarà capitato un po’ a tutti noi di amare una serie tv o un film che tratta di nobiltà per notare gli intrighi e i sotterfugi tra le varie famiglie.
Dante, temendo di fare tardi, decide di tornare da Virgilio.
Secondo noi Dante ha visto molto di più di quanto ci ha voluto descrivere, ma possiamo capire il perché non si sia soffermato nel raccontarcelo: non sono cose che ci riguardano.

Trova’ il duca mio ch’era salito
già su la groppa del fiero animale,
e disse a me: «Or sie forte e ardito.

Omai si scende per sì fatte scale;
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far male».

Qual è colui che sì presso ha ‘l riprezzo
de la quartana, c’ha già l’unghie smorte,
e triema tutto pur guardando ‘l rezzo,

tal divenn’ io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innazi a buon segnor fa servo forte.

I’ m’assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com’io credetti: «Fa che tu m’abbracce».

Dante trova Virgilio già sopra Gerionte, una figura nobile, impettita. Si sente dire dal proprio Maestro di essere forte, perché da questo momento in poi potranno discendere verso il centro dell’Inferno solo con questi “mezzi”, senza poter procedere camminando.
Dante già si spaventa, si sente come se avesse ricevuto la peggiore tra le notizie (si sente come se avesse ricevuto il primo brivido della febbre quartana, la malaria) ma non può fare altro che salire, chiedendo, forse in tono poco virile, che Virgilio lo tenga forte a sé per rassicurarlo.

Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch’i’ montai
con le braccia m’avvinse e mi sostenne;

e disse: «Gerïon, motivi omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco;
pensa la nova soma che tu hai».

Virgilio quasi non si serve delle parole di Dante, perché lo abbraccia da subito sostenendolo. Gli dà quella forza necessaria, la stessa che ci dà la nostra guida interiore quando sentiamo la paura prendere il comando.
Se ci fidiamo della nostra guida, infatti, non temiamo nulla, riusciamo a fare quel passo che tanto ci terrorizza.
Virgilio ordina a Gerione di partire, ricordando al mostro di andare piano, perché ha su di sé una persona viva.

Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi ch’al tutto si sentì a gioco,

là ‘v’era ‘l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l’aere a sé raccolse.

Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che ‘l ciel, come pare ancor, si cosse;

né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,

che fu la mia, quando vidi ch’i’ era
ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.

Gerione parte, Dante si sente più intimorito di Icaro o di Fetonte, è quella paura del non sapere. Attorno a sé ha solo il buio.

Ella sen va notando lenta lenta;

rota e discende, ma non me n’accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta.

Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi orribile scroscio,
per che con li occhi ‘n giù la testa sporgo.

Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
ond’io tremando tutto mi raccoscio.

E vidi poi, ché non vedea davanti,
lo scendere e ‘l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti.

Gerione si muove piano, tanto che Dante si accorge del movimento solo perché sente l’aria arrivare sopra il suo volto. Non per questo si tranquillizza. Cerca di guardare sempre più in basso, dove intravede fuochi e sente sempre più vicino a sé le urla e i pianti delle anime dannate.
Seguiamo la discesa, perché a ogni verso i rumori sono più forti, segno che Dante si sta avvicinando a quello che sarà l’ottavo girone.

Come ‘l falcon ch’è stato assai su l’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere «Omé, tu cali!»,

discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;

così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone,

si dileguò come da corda cocca.

Una volta arrivati, Gerione torna da dove è venuto.
Vi ricordiamo che cerchiamo di analizzare il tutto da un punto di vista esoterico, quel significato che non è lampante e che dobbiamo riconoscere scavando dentro di noi, ecco perché abbiamo quasi ignorato tutta la descrizione della discesa.
Ciò che salta all’occhio è che qui abbiamo visto in superficie gli usurai, mentre nel prossimo canto conosceremo meglio i fraudolenti. È come se agire aspettandosi qualcosa sia più una conseguenza, non è importante l’atto in sé. Ciò che conta è comprendere il perché vogliamo ottenere qualcosa, e la sua radice va cercata facendo quel salto nel vuoto che ci terrorizza.
Ma di questo parleremo il prossimo mese.

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