sabato 27 agosto 2022

#DivinaCommedia: Canto XVI

Nel canto precedente siamo nel girone dei sodomiti e abbiamo già notato come Dante non condanni apertamente tale peccato, anzi, porta molto rispetto all’anima di Brunetto Latini, suo maestro in vita. Nel sedicesimo canto dell’Inferno, stiamo ancora nel girone dei sodomiti e Dante non cambia il suo atteggiamento di fronte ad altre tre anime – non così vicine a lui nel mondo materiale – né accenna a un giudizio verso di loro.
Prima di iniziare con la spiegazione, vi ricordiamo che stiamo qui per analizzare i canti solo ed esclusivamente in maniera esoterica. È stato grazie al viaggio interiore di Dante che abbiamo potuto affrontare meglio il nostro, sperando di aiutare chiunque lo stia compiendo.      
Ricordiamo ancora una volta che ogni personaggio incontrato da Dante, è un lato del suo essere, così come lo è del nostro. Paradiso e Inferno vivono nel nostro quotidiano, non ci stancheremo mai di ripeterlo, a costo di sembrare petulanti.

Già era in loco onde s’udia ‘l rimbombo
de l’acqua che cadea ne l’altro giro,
simile a quel che l’arnie fanno rombo,

quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d’una torma che passava
sotto la pioggia de l’aspro martiro.

Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:
«Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri
essere alcun di nostra terra prava».

Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri.

A le lor grida il mio dottor s’attese;
volse ‘l viso ver’ me, e «Or aspetta»,
disse, «a costor si vuole esser cortese.

E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i’ dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta».

Dante e Virgilio proseguono il cammino per l’Inferno, e si avvicinano in un punto dove il fiume Flegetonte scroscia così intensamente che il rumore ricorda il ronzio delle api affaccendate nel loro lavoro. Lo immaginiamo essere un punto nel nostro cammino dove ci avviciniamo a un qualcosa di più profondo, abbiamo capito tanto di noi stessi, ma c’è ancora molto da conoscere e imparare.

Sempre improvvisamente, tre anime si avvicinano correndo a Dante. Lui osserva i loro corpi nudi e li vede pieni di ferite, macchie, causate dalla pioggia di fuoco. Alcune sono vecchie, forse cicatrizzanti, altre molto nuove. Prendiamoci un momento di pausa per ricordare che ogni personaggio che vediamo nella Divina Commedia è una parte di Dante, quindi di noi stessi. Ogni volta che abbiamo agito per Ego, abbiamo provocato delle ferite emotive in noi stessi. Queste ferite possono essere passate e quindi cicatrizzate perché guarite, ma anche fresche. Ricordate? Attenzione al raccontarcela del canto precedente!
Virgilio acconsente a Dante di fermarsi, perché sa che quelle tre anime sono molto importanti per il suo discepolo.

Ricominciar, come noi restammo, ei
l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei.

Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti,

così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che ‘n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio.

E «Se miseria d’esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prigehi»,
cominciò l’uno, «e ‘l tinto aspetto e brollo,

la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se’, che i vivi piedi
così sicuro per lo ‘nferno freghi.

Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:

nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada.

L’altro, ch’appresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita.

E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch’altro mi nuoce».

S’i’ fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che ‘l dottor l’avria sofferto;

ma perch’io mi sarei brusciato e cotto,
vinse pausa la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.

Conosciamo i nomi di queste anime: Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci. I tre sono personaggi di alto livello nella generazione fiorentina precedente a quella di Dante, tanto che il Poeta stesso li vorrebbe abbracciare, se non fosse per il fuoco che lo brucerebbe.
A parlare è Rusticucci che dice a Dante di essere nel girone per “colpa” della moglie: “la fiera moglie più ch’altro mi nuoce”. Ciò fa capire, ancora una volta, che Dante per sodomia non intende solo i rapporti omosessuali, ma per chiunque abbia compiuto l’atto sessuale non finalizzato alla procreazione, andando quindi contro il volere di Dio.
Ora, vi abbiamo già spiegato che di questi tempi potremmo vederlo come: chiunque non compia atti di amore incondizionato. Ogni volta che agiamo per avere un tornaconto, o per invidia, o perché così pensiamo che l’altro rimanga sempre con noi se… ogni volta che c’è un secondo fine, insomma, quella è la nostra sodomia.
Gli altri due uomini sono stati in vita due fieri condottieri della parte guelfa; parteciparono entrambi alla battaglia di Montaperti, dove vennero sconfitti.

Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia,

tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i’ mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse.

Di vostra terra sono, e sempre mai
l’ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai.

Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma ‘nfino al centro pria convien ch’i’ tomi».

Dante non prova disprezzo per loro, al contrario. È così afflitto dalla loro condizione che sa tale emozione scemerà molto lentamente nel corso del tempo. Nonostante fossero stati uomini d’onore in vita, questo non li salva dall’Inferno. Ora, altra pausa per riflettere: quante volte vediamo persone che in apparenza hanno tutto e pensiamo a quanto vorremmo essere come loro? Vedete, l’Inferno o il Paradiso non sono luoghi a cui andremo una volta morti ma li viviamo nel quotidiano. Dante vuole farci notare quanto non siano importanti le gesta che compiamo nel mondo, anzi, forse sono nulla se dentro la nostra mente ci condanniamo alla pena più atroce.
Dante dice loro che proviene dalla medesima città, Firenze, appunto. Conosce i loro nomi ed è come se li rincuorasse, ammettendo quanto siano importanti per lui. Spiega il suo cammino: deve spogliarsi di ogni peccato (“Lascio lo fele”) per andare verso il Paradiso, dal quale prenderà tutti i migliori frutti (e vo per dolci pomi/promessi a me per lo verace duca”) ma che prima di poterli avere, deve attraversare tutto l’Inferno (“ma ‘nfino al centro pria convien ch’i’ tomi.”) Ora, non per farvi “spoiler”, ma se pensiamo al fatto che la porta dell’Inferno è sempre aperta e tutti possono oltrepassarla per andare verso il Purgatorio, questi versi ci fanno sul serio riflettere: Dante dice apertamente a se stesso che i frutti del Paradiso sono lì per lui, non scappano, non scompaiono dopo qualche tempo. L’unica cosa che si chiede all’essere umano è di scendere (tomi è scendere, appunto) al centro della terra, il fulcro del proprio essere, scoprirsi interamente, abbandonare ogni peccato, (ricordiamo sempre l’origine del termine: mancare il bersaglio) ogni attaccamento egoico e rinascere.
Cercate di avere bene impressa questa scena prima di proseguire, perché sarà importantissima per dopo.

«Se lungamente l’anima conduca
le membra tue», rispuose quelli ancora,
«e se la fama tua dopo te luca,

cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n’è gita fora;

ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole».

«La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».

Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar l’un l’altro com’al ver si guata.

«Se l’altre volte sì poco ti costa»,
rispuoser tutti, «il satisfare altrui,
felice te sei sì parli a tua posta!

Però, se campi d’esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere ‘l’ fui’,

fa che di noi a la gente favelle».
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle.

Le anime gli augurano di arrivare al suo obiettivo, e di avere vita anche dopo la morte. Successivamente gli domandano com’è “ora” la gente di Firenze, visto che Guglielmo Borsiere – al tempo da poco deceduto – ha descritto una città caduta nella perdizione. Dante non può mentire, e conferma le tristi parole del Borsiere: Firenze pullula di una nuova generazione che pensa solo ad arricchirsi e che per sete di potere e denaro, umiliano la città toscana.
Le anime, a sentire quelle parole urlate dal Poeta, vanno via urlando, come se non volessero ascoltare la Verità. Quante volte chiudiamo occhi e orecchie di fronte qualcosa che non ci piace?
Tra l’altro, Dante urla contro la gente di Firenze. Badate bene: in due canti non ha giudicato il peccato di sodomia, ma continua a urlare contro scelte politiche diverse dalle sue. Dante è nel momento in cui riconosciamo in noi i nostri limiti, ma ancora accusiamo gli altri dei loro. Ce la raccontiamo, giusto?
Le anime, comunque, pur non reggendo a così tanta schiettezza, ammirano Dante e gli chiedono di parlare di loro una volta che tornerà “a riveder le belle stelle”. Promessa mantenuta. Da notare anche che seppur ci è difficile vedere la realtà nuda e cruda, quando stiamo sul serio nel cammino apprezziamo comunque chi ce la sbatte in faccia.

Un amen non saria possuto dirsi
tosto così com’e’ furono spariti;
per ch’al maestro parve di partirsi.

Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che ‘l suon de l’acqua n’era sì vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi.

Come quel fiume c’ha proprio cammino
prima dal Monte Viso ‘nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino,

che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel baso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,

rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;

così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’acqua tinta,
sì che ‘n poc’ora avria l’orecchia offesa.

Le anime sono andate via, Dante e Virgilio proseguono il loro cammino fino al punto in cui il Flegetonte comincia ad assomigliare all’Acquacheta. Tale fiume è un affluente del Montone e, poco prima di S. Benedetto in Alpe, si conclude con l’omonima cascata di settanta metri.

Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.

Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,
sì come ‘l duca m’avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.

Ond’ei si volse inver’ lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell’alto burrato.

«E’ pur convien che novità risponda»,
dicea fra me medesmo, «al novo cenno
che ‘l maestro con l’occhio sì seconda».

Virgilio chiede a Dante di dargli la corda che utilizzava come cintura. Ora, il significato esoterico di corda è proprio la relazione tra il mondo divino e quello materiale (Arjuna che nella Bhagavadgītā scambia la corda per il serpente, ma oltre a questa frase, qui non possiamo andare) mentre quello di cintura è più profondo, riguarda il legame tra allievo e Maestro, nel rispetto delle leggi e nella temperanza.
Dante si fida di Virgilio, noi dovremmo fidarci del nostro intuito; si slaccia la corda e gliela porge. Il Maestro la lancia verso il vuoto, e Dante è in attesa perché sa che qualcosa deve accadere.
Vi ricordate, prima, quando vi abbiamo detto che dobbiamo scendere più in profondità verso noi stessi? Ecco, dobbiamo farlo sempre, fidandoci del nostro intuito. Dobbiamo scavare nella profondità di ogni nostro gesto, pensiero, parola… consapevoli che prima o poi il perché ci sarà svelato.
Dante non è spaventato come all’inizio, perché ora si fida ciecamente di Virgilio, quindi rimane in attesa.

Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l’ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!

El disse a me: «Tosto verrà di sovra
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch’al tuo viso si scovra».

Questo è uno dei versi che più amiamo: Dante – forse con una leggera punta di sarcasmo – ci mette bonariamente in guardia: dobbiamo stare attenti a quelli che capiscono non solo le nostre parole, ma anche i nostri pensieri.
Virgilio è come se leggesse nella mente di Dante, e infatti, poco dopo ammette che stanno aspettando qualcosa che il Poeta già immagina, ma che presto vedrà con i suoi occhi.

Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,
però che sanza colpa fa vergogna;

Anche questi versi sono colmi di saggezza: di fronte a una verità che sembra una bugia, l’uomo deve rimanere in silenzio finché può, perché può guadagnarsi il biasimo.
Non avete idea di quante volte, parlando del nostro cammino interiore e di ciò che abbiamo scoperto oltre il materiale, la gente ci ha giudicate come pazze, folli, perché la nostra Verità era menzogna ai loro occhi. Ebbene, i più coraggiosi tra loro (perché ci vuole un immenso coraggio ad affrontare questo percorso) si sono poi sentiti in colpa, quasi mortificati, quando hanno visto con i loro occhi che tutto ciò detto da noi era vero.

ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s’elle non sien di lunga grazia vòte,

ch’i’ vidi per quell’aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,

sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,

che ‘n sù si stende e da piè si rattrappa.

Dante non riesce a rimanere zitto e ci descrive ciò che sta vedendo: una figura mostruosa che avrebbe suscitato reazione anche nella persona più temeraria, si leva nell’aria, nuotando. Stende le sue braccia in alto, ritrae la gambe come chi torna in superficie dopo essersi immerso completamente in mare per liberare l’ancora impigliata di una nave.

Tale mostro è Gerione, che conosceremo meglio nel prossimo canto, dedicato agli usurai.

Nessun commento:

Posta un commento