sabato 5 marzo 2022

#DivinaCommedia: Canto X

Siamo già al decimo canto, siamo entrati nel vivo della città di Dite. Ci aspettano tanti insegnamenti, di cui uno è fondamentale: il cammino iniziatico non ha bisogno della mente. Lasciamo da parte il volere prove, l’intelligenza e il sapere. Sono strumenti che dobbiamo utilizzare quando stiamo nel fare, ma per la nostra anima non servono.

Visto che la spiegazione sarà abbastanza lunga, iniziamo ad analizzare il canto. Vi ricordiamo che sarà solo dal punto di vista esoterico, le altre nozioni le abbiamo già apprese tutti durante gli anni di liceo.

Ora sen va per un secreto calle,
tra ‘l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.

«O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com’a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri.

La gente che per li sepolcri giace
potrebbe veder? Già son levati
tutt’i coperchi, e nessun guardia face».

E quelli a me: «Tutti saran serrati
quando di losofàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.

Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti i suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno.

Però a la dimanda che mi faci
quinc’entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci».

E io: «Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m’hai non pur mo a ciò disposto».

Arrivati alla città, Dante vede le tombe di tutte le anime dannate, che come vi abbiamo già detto nell’analisi del nono canto, appartengono agli eresiarchi. Così il Poeta chiede alla sua guida se può sapere i nomi delle persone lì sepolte, visto che le tombe sono aperte e non c’è nessun demone a custodirle. Virgilio gli risponde che ci sono tutti i seguaci di Epicuro. Perché?

Epicuro è il fondatore di una delle scuole filosofiche più importanti della dottrina ellenistica (II-I secolo a.C.) e secondo il suo pensiero l’universo è governato solo ed esclusivamente da leggi materiali. Tutto secondo lui è composto da atomi, anche l’anima stessa, ecco perché la reputa mortale. Secondo questo pensiero, quindi, ogni pena post mortem perde il suo valore.

Virgilio aggiunge anche che presto avrà la risposta alla domanda che ancora non ha formulato, e cioè se anche l’anima di Farinata Degli Uberti è presente nella città. Dante, forse con una leggera vergogna, si giustifica dicendo che non ha posto la domanda solo per evitare di parlare a sproposito.

Ecco, sempre con un sorriso sincero sul nostro volto, vi confidiamo che anche noi, all’inizio del nostro cammino iniziatico, non porgevamo domande perché le reputavamo sciocche. Ve lo abbiamo già accennato, e qui si ritorna a questo timore che è difficile da abbandonare.

L’Ego, che con il processo di iniziazione si riduce sempre più, non volendo perdere il controllo, ci fa credere che esistano domande inutili e domande utili per il nostro cammino. Ovviamente così non è. Ogni dubbio deve essere districato, e non possiamo scioglierlo, se non ci poniamo la domanda.

Ovviamente si parla sempre di domande interne, ma chi ha la fortuna di avere dei Maestri accanto, può anche porle a loro.

Ma chi è Farinata Degli Uberti? Sappiamo che Dante era un Guelfo, Degli Uberti era uno dei più conosciuti capi Ghibellini dell’epoca. Di solito ci si ferma qui, ma ovviamente, se Virgilio ha citato Epicureo prima, e Dante internamente si chiede se ci sia anche Farinata Degli Uberti, è perché quest’ultimo era un sostenitore delle teorie epicuree.

«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
a la qual forse fui troppo molesto».

Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio.

Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ‘l vedrai».

Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto.

E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte».

Adesso vi invitiamo a ricordare che ogni persona incontrata da Dante è in realtà una parte di Dante stesso. Possiamo citarvi Jung e la sua teoria sugli specchi, ma ne abbiamo già parlato abbastanza in molti articoli.

Un’anima riconosce lo stesso suo accento toscano e invita Dante a fermarsi e parlare con lei. Dante si spaventa, ma Virgilio lo sgrida amorevolmente facendogli intendere che è inutile chiudersi, se ha sentito quella voce non solo deve girarsi verso di essa, ma interloquire in modo educato. 

Questo ci riporta al fatto che quando sentiamo arrivare un nostro contenuto in superficie, non dobbiamo temerlo, ma ascoltarlo in maniera dolce e dandogli il massimo rispetto.

Com’io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?»

Io ch’era d’ubidir desideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in suso;

poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fiate li dispersi».

«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,
rispuos’io lui, «l’una e l’altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte».

Farinata, perché della sua anima si tratta, chiede a Dante da chi discenda, e lui gli elenca i suoi antenati. Da qui l’anima capisce di trovarsi davanti un suo rivale: un Guelfo. Inizia un botta e risposta che ricorda tanto qualsiasi parte duale moderna. Romanisti e laziali, italiani e francesi, destra e sinistra… Ora, questo passaggio a noi fa ridere tantissimo, soprattutto quando ricordiamo di esserci cascate molte volte in passato.

Entrambe le parti esaltano le proprie ragioni e non ci vuole molto tempo affinché la goliardia si trasformi in risentimento. Grazie al nostro cammino, abbiamo notato quanto nella realtà le due parti siano esattamente uguali. Non esistendo la dualità, non esiste una ragione assoluta A o B.

Teniamo a mente questo, perché nel corso del Purgatorio e Paradiso vedremo l’enorme differenza di comportamento tra persone in apparenza opposte.

Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchia levata.

Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ‘l sospecciar fu tutto spento,

piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? E perché non è teco?».

Mentre Dante e Farinata sono intenti nel battibecco, un’altra anima dannata fa capolino e dopo aver osservato un po’ chi ci fosse assieme a Dante, gli chiede piangendo se sa che fine avesse fatto suo figlio. Dante lo riconosce come Cavalcante dei Cavalcanti e nei versi successivi c’è davvero un importantissimo insegnamento.

Il figlio di Cavalcante, Guido, sposò Beatrice (Bice) degli Uberti, figlia di Farinata, nel 1267. Così il padre si domanda: “Se tu, Dante, stai compiendo questo viaggio per meriti intellettuali, dove si trova mio figlio?”. Anche se Guido non fu un vero e proprio seguace di Epicureo, anzi, era persino amico di Dante, in vita teneva moltissimo ai beni materiali. Difatti il matrimonio tra Guido e Beatrice fu solamente un tentativo di riappacificare le due casate rivali. La risposta di Dante, è meravigliosa:

E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».

In pratica Dante gli risponde che non sta intraprendendo il viaggio attraverso l’Inferno per suo volere, ma perché Virgilio (colui ch’attende là) lo sta conducendo da Beatrice, (forse cui Guido vostro ebbe a disdegno) la Grazia.

Non serve, quindi, avere una forte componente mentale, o l’intelligenza, per affrontare questo cammino interiore, ma bisogna al contrario distaccarsene il più possibile. L’anima (in questo caso Beatrice) la si incontra non per volere mentale, ma per chiamata interna.

Di subito drizzato grido: «Come?
dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».

Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.

A conferma del fatto che non serve avere acume mentale, Dante gioca con un grande equivoco: il nome Beatrice. “Ebbe a disdegno”. Dante la intende come grazia che Guido non ha mai abbracciato sul serio, il padre capisce il riferimento alla sposa di cui il figlio non era realmente innamorato.

Durante il viaggio di Dante, Guido era ancora vivo (morirà pochi mesi dopo, nell’agosto del 1300) ma Cavalcante, che ovviamente non può seguire la sua intuizione stando all’Inferno, crede che suo figlio sia morto, così scompare per non fare più ritorno.

Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa:

e sé continuando al primo detto,
«S’elli han quell’arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.

ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa.

E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?».

Farinata rimane in silenzio per tutto il discorso che Dante intrattiene con il suo consuocero, e quando quest’ultimo va via, lui riprende a discutere con Dante, come se nulla fosse successo. Anzi, li predice che tra quattro anni Dante subirà lo stesso dolore che hanno provato i suoi avi, e che di rimando prova anche Farinata, nel non poter più tornare a Firenze.

Seguono altri versi in cui Farinata chiede perché i fiorentini ce l’abbiano tanto con la sua famiglia, e Dante spiega le ragioni. Dopo un po’, Dante, curioso, domanda a Farinata perché i dannati riescano a vedere così chiaramente il futuro (la predizione dell’esilio di Dante) ma non il presente (Cavalcante che crede alla morte del figlio).

Farinata risponde che questo è il volere di Dio (vi stiamo dicendo tutto in modo sintetico, per questioni di spazio) e che più un evento è lontano, più loro riescono a vederlo in maniera vivida. Dante, commosso per il malinteso creatosi prima, affida a Ferrante le scuse per Cavalcante, facendosi promettere di riportare al consuocero che il figlio è vivo.

Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando.

«La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te», mi comandò quel saggio.
«E ora ttendi qui», e drizzò ‘l dito:

«quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il viaggio».

Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede,

che ‘infin là sù facea spiacer suo lezzo.

Dopo la conclusione della chiacchierata con Ferrante, Virgilio chiede a Dante perché si senta così tanto triste. Dante gli racconta la profezia che lo vorrà esiliato da Firenze entro quattro anni, e Virgilio gli risponde di ricordare bene ciò che ha appreso da Ferrante. Fa intendere che tutto ciò non sarà importante perché solo quando sarà di fronte alla sua anima, (Beatrice) lui capirà il vero compito che gli spetta in questa vita.

Possiamo avere tante intuizioni su quello che sarà il nostro futuro, e spesso non sono, o meglio, non ci appaiono molto positive. Ma non sono importanti. Perché anche un esilio, che certo provocherà dolore a Dante, fa parte del compito che ha scelto di incarnare.

E che è un esilio dall’amata Firenze in confronto a quello che è il valore del poeta ancora adesso ammirato? Il Canto si conclude con i due che giungono verso un sentiero, e già sappiamo che una puzza tremenda li sta pervadendo. Vedremo nel Canto XI quel che ci aspetterà.

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