sabato 29 aprile 2023

#DivinaCommedia: Canto XXIV

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.    

Oggi analizziamo il ventiquattresimo canto dell’Inferno, e ci concentriamo su quanto sia importante non fermarsi, anche quando sembra che non abbiamo più le forze.     
In più incontriamo Vanni Fucci, famoso omicida e sanguinario ma che troviamo quasi inaspettatamente nella bolgia dei ladri. Come mai?

Al solito vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su se stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.

Per chi segue assiduamente la rubrica tutto quello che verrà detto può sembrare una ripetizione, ma crediamo che bisogna dare retta ai nostri avi quando dicevano che repetita iuvant. Nel campo spirituale, poi, questo detto vale molto di più.
In quella parte del giovanetto anno
che ‘l sole i crin sotto l’Aquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno,

quando la brina in su la terra assempra
l’imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra,

lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta: ond’ei si batte l’anca,

ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come ‘l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna,

veggendo ‘l mondo aver cangiata faccia
in poco d’ora, e prende suo vincastro
e fuor le pecorelle a pascer caccia.

Così mi fece sbigottir lo mastro
quand’io li vidi sì turbar la fronte,
e così tosto al mal giunse lo ‘impiastro;

ché, come noi venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
dolce ch’io vidi prima a piè del monte.
Dante ci fa capire il suo stato d’animo con una splendida immagine: l’ansia nel vedere Virgilio turbato per quanto successo in precedenza, lo fa rimanere inerme e senza sapere cosa fare proprio come accade al contadino nel periodo di febbraio.     
Quando il sole è nella costellazione dell’Aquario, infatti, le giornate cominciano ad allungarsi e a farsi più calde, così il contadino con le scorte dell’inverno quasi finite, se al mattino svegliandosi vede del bianco attorno a sé rimane sgomento, perché crede sia neve. Basta poco, però, per rendersi conto che è solo brina e quando si scioglie al sole può tirare un sospio di sollievo, vedendo il verde dell’erba.
Quando, quindi, Dante ritrova il sorriso di Virgilio, lo stesso con cui l’ha accolto all’inizio del cammino, si rinfranca anche lui.

Certamente il cammino spirituale non è facile, lo abbiamo sempre detto, e capita che anche la nostra stessa guida interiore possa “perdersi” – semplicemente perché è così tanta la sorpresa di quanto apprendiamo che non riusciamo più a osservarla come prima – ma quando torna a farsi sentire la voce, allora tiriamo un sospiro di sollievo e siamo più intenzionati a proseguire.

Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio.

E come quei ch’adopera ed estima,
che sempre par che ‘nnanzi si proveggia,
così, levando me sù ver’ la cima

d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia
dicendo: «Sovra quella poi t’aggrappa;
ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia».

Non era via da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
potavam sù montar di chiappa in chiappa.

E se non fosse che da quel precinto
più che da l’altro era la costa corta,
non so di lui, ma io sarei ben vinto.

Ma perché Malebolge inver’ la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta

che l’una costa surge e l’altra scende;
noi pur venimmo al fine in su la punta
onde l’ultima pietra si scoscende.

Ciò che ci ha colpiti di questa immagine è come Virgilio guida Dante: la guida è sì spinta da un moto di azione, ma per dare indicazioni al Poeta fiorentino su come andare, ha ben osservato e riflettuto.
Conduce Dante per la ripida salita, ricordando però che deve essere lui stesso a vedere se la roccia è ben salda.

La stessa identica cosa, neanche a dirlo, succede a noi quando stiamo nel mezzo del cammino interiore: possiamo affidarci quanto vogliamo alla Guida, ma dobbiamo prima capire se nel prossimo passo i nostri piedi toccheranno un terreno solido o friabile.
Non possiamo procedere in quello che dobbiamo fare se non abbiamo prima fatto pace con il nostro passato, se non abbiamo sistemato il nostro presente.
Ogni guida ama indicarci la via, ma se non costruiamo prima una base solida, come possiamo concludere il cammino?

Ecco perché sono sempre lì a ricordarci che dobbiamo valutare noi stessi se è il caso di metterci in moto, sempre sostenuti e amati da loro.

La lena m’era del polmon sì munta
quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre,
anzi m’assisi ne la prima giunta.

«Omai convien che tu così ti spoltre»,
disse ‘l maestro; «ché, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né sotto coltre;

sanza la qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di sé lascia,
qual fummo in aere e in acqua la schiuma.

E però leva sù; vinci l’ambascia
con l’animo che vince ogne battaglia,
se col suo grave corpo non s’accascia.

Più lunga scala convien che si saglia;
non basta da costoro esser partito.
Se tu mi ‘ntendi, or fa sì che ti vaglia».

Leva’mi allor, mostrandomi fornito
meglio di lena ch’i’ non mi sentia,
e dissi: «Va, ch’i’ son forte e ardito».

Arrivato in cima, dopo la faticosa e lunga salita, Dante si siede per riprendere fiato, ma è in questo momento che Virgilio lo sgrida. Non è più il momento di riposarsi, soprattutto perché da adesso in poi ci saranno molti più cammini impervi e faticosi, mollare non è mai stata una soluzione, ora non è neanche un’opzione.
Le parole di Virgilio, sebbene possano sembrare dure alle orecchie dei non iniziati, sono invece cariche di supporto, proprio come un allenatore di calcio sprona i suoi giocatori da bordocampo.
L’unico modo che abbiamo per lasciare in questo mondo una traccia di noi è fare, agire, e la pigrizia diviene quindi una delle nostre più grandi nemiche.

Certo, alcuni di voi potrebbero dire che non vogliono essere ricordati o fare chissà che, ma se si parla dal punto di vista spirituale, se siamo scesi sulla Terra e abbiamo preso possesso di un corpo, è sicuramente per uno scopo e non adempierlo può darci l’illusione di un libero arbitrio, o di un riposo necessario, ma in realtà è l’unico fallimento che non possiamo permetterci.

Chi è cresciuto con le parole del Vangelo si ricorderà sicuramente la parabola dei talenti, dove al servo pauroso, pigro e di conseguenza malvagio, non tocca una bella sorte.
Conscio di ciò, Dante non si lamenta e non si spaventa, bensì si alza mostrando una forza maggiore di quella che possiede in realtà.

Su per lo scoglio prendemmo la via,
ch’era ronchioso, stretto e malagevole,
ed erto più assai che quel di pria.

Parlando andava per non parer fievole;
onde una voce uscì de l’altro fosso,
a parole formar disconvenevole.

Non so che disse, ancor che sovra ‘l dosso
fossi de l’arco già che varca quivi;
ma chi parlava ad ire parea mosso.

Io era vòlto in già, ma li occhi vivi
non poteano ire al fondo per lo scuro;
per ch’io: «Maestro, fa che tu arrivi

de l’altro cinghio e dismontiam lo muro;
ché, com’i’ odo quinci e non intendo,
così giù veggio e neente affiguro».

«Altra risposta», disse, «non ti rendo
se non lo far; ché la dimanda onesta
si de’ seguir con l’opera tacendo».


Nel mentre continuano a camminare, Dante sente una voce vicina, come se appartenesse a qualcuno che si muove assieme a loro, ma non riesce a capire cosa sta dicendo, né da dove provenga visto l’estremo buio che li circonda.
Preso da un moto di volontà, chiede aiuto a Virgilio di arrivare dall’altra parte, di modo da poter risolvere l’enigma formato nella sua mente.
Virgilio ribatte a Dante in un modo che noi sinceramente abbiamo tanto amato: gli dice che l’unica risposta che avrà da lui sarà nell’azione, perché una richiesta legittima deve essere seguita dalle azioni e non dalle parole.

Quante volte ci siamo sentiti dire, o abbiamo detto: “Servono fatti, non parole.”? Ecco, anche nel cammino interiore si arriva a questo punto.     
Bello meditare, pregare, parlare citando queste o quelle Scritture, ma a fatti come stiamo messi? Bello salire nel pulpito proclamando una qualsiasi Verità, ma alle nostre parole, corrispondono anche le azioni? Abbiamo cambiato modo di pensare, ma abbiamo cambiato anche la nostra routine? Siamo andati oltre i nostri limiti? Abbiamo lasciato da parte i peccati appena incontrati o ancora ci comandano?

Noi discendemmo il ponte da la testa
dove s’aggiungne con l’ottava ripa,
e poi mi fu la bolgia manifesta:

e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa.

Più non si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,

né tante pestilenzie né sì ree
mostrò già mai con tutta l’Etïopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.

Tra questa cruda e tristissima copia
corrëan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:

con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e ‘l capo, ed eran dinanzi aggroppate.


Arrivati a destinazione, Dante si raggela alla vista dello spettacolo che ha davanti: le anime corrono nude, in mezzo a una fossa piena zeppa di serpenti. Tali animali sono così numerosi che superano di numero quelli presenti nei deserti di Libia, Etiopia e Arabia.
Le serpi non rimangono a strisciare a terra, ma bensì salgono sulle anime, divenendo dei lacci ai polsi delle loro mani – legge del contrappasso: in vita hanno rubato e agito impulsivamente per sottrarre beni altrui, ora non hanno più il controllo degli arti superiori – lacerano la pelle delle anime, che terrorizzate fuggono anche se non hanno riparo o cura miracolosa. L’elitropia, infatti, è una pietra che ai tempi si pensava rendesse invisibile.

Il serpente, si sa, è simbolo di inganno e pericolo, ma anche di rigenerazione, verità svelate, trasformazione e cambiamento. Anche se gli ultimi significati possono sembrare positivi, ciò non toglie che le anime ne siano terrorizzate. Anche perché proviamo ad ammetterlo: quanto amiamo i cambiamenti?

Con questa domanda in sospeso, sperando trovi risposta, possiamo andare avanti.

Ed ecco a un ch’era da nostra proda,
s’avventò un serpente che ‘l trafisse
là dove ‘l collo a le spalle s’annoda.

Né O sì tosto mai né I si scrisse,
com’el s’accese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;

e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
e ‘n quel medesmo ritornò di butto.

Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;

erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce.

E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
o d’altra oppilazion che lega l’omo,

quando si leva, che ‘ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:

tal era ‘l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant’è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!


Improvvisamente Dante vede un serpente avventare un’anima che in un attimo prende fuoco e diventa cenere, per poi rinascere proprio come fa la fenice ogni cinquecento anni circa. Il peccatore, una volta ritornato alla “normalità”, si guarda attorno smarrito, senza sapere bene cosa sia successo.

Sappiamo tutti cosa simboleggia la fenice: un ciclo di morte e rinascita, ma anche un rialzarsi dopo le cadute della vita. Se ricordiamo il serpente, siamo già a due simboli di rinnovamento e cambiamento, e non è un caso siano messi uno dopo l’altro.

L’anima, così come tutti noi quando siamo consapevoli dei nostri comportamenti scorretti, può procedere in due modi: o ignora e continua con i suoi peccati, o decide di comportarsi rettamente. Questa decisione è da prendere ogni giorno della propria vita. Andiamo a vedere ora che cosa ha scelto l’anima appena ricomposta.  

Lo duca il domandò poi chi ello era;
per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera.

Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana».

E ïo al duca: «Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù ‘l pinse;
ch’io ‘l vidi omo di sangue e di crucci».


Vanni Fucci era un personaggio di Pistoia molto noto all’epoca di Dante e non per giusti meriti. Pare sia morto tra il 1295 e il 1300, ecco perché dice che è da poco tempo che è sceso in questo luogo.
Era figlio illegittimo del nobile Fuccio de’ Lazzeri e la sua fama lo vede come una persona totalmente sanguinaria e violenta.
Partendo da qui diviene ovvio il motivo che spinge Dante a volere più spiegazioni sul reale motivo un’anima così deplorevole stia nel girone dei ladri, che seppur giustamente puniti, non hanno di certo il passato del Fucci.
Aggiungiamo anche, tanto per aumentare l’astio nei confronti del peccatore, che era anche un Guelfo nero e aveva preso parte a diverse lotte contro i Guelfi bianchi, fazione, come si sa, di Dante.    

Come abbiamo già visto e vedremo, Dante ama mettere nel suo cammino persone che possono incarnare i suoi acerrimi nemici, forse per sfogarsi, forse per redimersi, chissà...

E ‘l peccator, che ‘ntesse, non s’infinse,
ma drizzò verso me l’animo e ‘l volto,
e di trista vergogna si dipinse;

poi disse: «Più mi duol che tu m’hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l’altra vita tolto.

Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch’io fui
ladro a la sagrestia d’i belli arredi,


Scusateci se interrompiamo le terzine qui, ma ovviamente c’è un motivo che spiegheremo nel prossimo paragrafo.
Vanni Fucci si vergogna non per il peccato che ha commesso, ma perché è stato riconosciuto da Dante, ma nonostante questo accetta di buon grado di rispondere alla domanda posta.

Pare che in una notte del 1293 circa, assieme a due suoi complici (Vanni della Monna e Vanni Mirronne), entrò nel Duomo di Pistoia e rubò diversi oggetti sacrali dalla Cappella di San Jacopo. Successivamente per tale furto fu incolpato, e quasi condannato a more, Rampino Foresi. Solo all’ultimo Vanni della Monna, spinto da chissà quale spirito di grazia, ha confessato il crimine, facendo anche i nomi degli altri due. Se della Monna venne poi impiccato, Vanni Fucci riuscì a nascondersi, anche quando nel 1295 fu condannato per diversi omicidi e brigantaggio.
La sua morte è datata sicuramente prima del 1300, ma le cause rimangono ancora oggi sconosciute.

e falsamente giù fu apposto altrui.
Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,

apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.

Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch’è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra

sovra Campo Picen fia combattuto;
ond’ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.

E detto l’ho perché doler ti debbia!».


Ed eccoci arrivati alla spiegazione del perché abbiamo dovuto dividere il discorso del Fucci a metà: è lo stesso Dante che fa passare quasi in secondo piano il gesto commesso in vita dall’anima, dando più risalto alla sua sete di vendetta.
Ferito nell’orgoglio per essere stato riconosciuto, agisce di vendetta e profetizza a Dante la vittoria finale dei Neri e il suo esilio da Firenze.
Non contento di averlo colpito nel segno, gli spiega anche il perché di tale risposta: vuole ferirlo.

Quindi, ricapitoliamo: Vanni Fucci è sicuramente una parte di noi brutale, animalesca, feroce e assassina – difatti qui è dimostrato che si può uccidere anche con le parole – che quando viene ferita nell’orgoglio, invece di rendersi umile e accettare i propri limiti, così da farsi perdonare eventuali errori, cede alla superbia e alla vendetta.

Prima di “ascoltare” la risposta di Dante – nel prossimo canto – è bene però rispondere alla domanda iniziale: perché Vanni Fucci è nel girone dei ladri?
Ebbene, questo a nostro avviso è un colpo di maestria e maturità spirituale di Dante: se per tutta la vita il Fucci è scappato dalla giustizia terrena, non può farlo da quella divina. Nella morte paga il debito per l’unico reato non riconosciutogli in vita.

E vale anche per il nostro cammino spirituale, credeteci: arriverà il punto in cui ci sentiremo totalmente colpevoli per gli unici gesti negativi che non hanno mai avuto conseguenze.

Comunque sia, è inutile crogiolarsi nel vittimismo. Il prossimo mese vedremo come si potrà andare avanti.

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