giovedì 25 febbraio 2021

#Cinema&SerieTv: When They See Us - Recensione

Perché ci trattano così?
Ci hanno mai trattato diversamente?

Nel periodo che va dal 1° febbraio al 1° marzo c'è una ricorrenza degli Stati Uniti d’America e del Canada che prende il nome di “black history month”, il mese della storia dei neri. Un mese per ricordare le violenze subite e che ancora oggi perpetuano verso la comunità afroamericana. Non a caso lo scorso anno a fronte dell’omicidio immotivato di George Floyd è iniziato il black lives matter, un movimento perché non vi siano più disuguaglianze. Eppure queste disuguaglianze ci sono, permeate soprattutto (e non solo) nelle maglie del tessuto americano, a prescindere dal presidente in carica. Le violenze continuano, tanto che lo scorso anno si è spesso parlato di smantellare completamente il corpo della polizia americana per i loro presunti ideali da ku klux klan, dai modi estremanemte violenti quando a creare anche il più piccolo dei problemi o vi sia un sospetto disordine viene individuato un membro afroamericano.

Per parlare di queste violenze senza pari, su Netflix è disponibile “When They See Us”, una miniserie prodotta nel 2019, attuale ieri come oggi.

La storia racconta le vicende e le violenze subite da cinque ragazzi della comunità afroamericana e ispanica da parte della polizia nel famoso caso della “jogger di Central Park". Era il 19 aprile del 1989, ad Harlem, quando un gruppo di ragazzi si ritrovò a far baldoria e a infastidire i passanti nel famoso parco. Avvertite le forze dell’ordine, molti giovani vennero brutalmente fermati e picchiati dalla polizia. In seguito, nello stesso parco, venne trovata una ragazza bianca brutalmente picchiata e stuprata. In coma, la giovane riporterà danni gravi e permanenti.

La serie tv racconta quella drammatica vicenda giudiziaria che vide come protagonisti cinque ragazzi di neanche diciassette anni che vennero accusati senza alcuna prova a loro carico. In “When they see us” i cinque ragazzi Antron, Kevin, Yusef, Raymond e Korey vengono fermati e interrogati separatamente. Lì cominciano le violenze.
Malgrado non ci sia alcuna prova del loro coinvolgimento nel caso giudiziario, la polizia interroga i ragazzi uno per uno, da soli, senza che vi sia la presenza di un genitore o di un avvocato (è illegale che non vi sia un genitore o un tutore quando il caso riguarda dei minorenni) e attraverso violenze psicologiche e ripetute percosse varie vengono costretti a mentire. La polizia finge di stare dalla loro parte, che dopo ore e ore di interrogatorio permetteranno loro di fare ritorno a casa, ma è solo il momento più basso dell’escalation di violenza.


Al commissariato, per la fretta di archiviare il caso, viene usata violenza contro di loro, obligandoli ad ammettere e a firmare documenti che attestino il loro non doversi avvalere di avvocati. Il momento peggiore arriva quando le forze dell’ordine obbligano i giovani a concordare una versione che implichi la colpevolezza di uno degli altri quattro interrogati. Vengono costretti a firmare confessioni e deposizioni che loro non hanno neanche pronunciato e a ripetere il tutto come a scuola davanti a delle telecamere, così da avere testimonianze l’uno della colpevolezza dell’altro. Non si conoscono, non si sono mai visti prima, eppure vengono obbligati a puntare il dito verso un altro di cui hanno tra le mani solo il nome. La polizia arresta i ragazzi con l’accusa di stupro di gruppo. Finoscono in pasto a giornalisti che, senza scrupoli, cominciano a inventare una storia che, senza alcuna presunzione di innocenza, li vede come ragazzi provenienti dai bassifondi della città in cui violenza, spaccio e un patologico bisogno di distruggere i bianchi diventa il movente dell’aggressione.

Quante volte i giornali hanno dipinto come mostri dei presunti colpevoli per poi ritrattare il tutto con un trafiletto? Non solo in America, sia chiaro, ma quante volte capita che, dopo decenni in carcere, quando ormai l’individuo non conosce più il mondo fuori, viene dischiarato non colpevole? Titoloni ti prima pagina, a caratteri cubitali che lasciano sull’innocente un’onta che non potrà mai lavare via.

È lo stesso che capitò ai cinque ragazzi di Harlem, vittime di un sistema giudiziario pronto ad additare l’altro e a imputarlo per una sola questione di etnia? Nell’aprile dell’89, come nel maggio del 2020, lo scambio di battute tra due ragazzi, che si rendono conto di essere stati incastrati e costretti l’uno a mentire sull’altro, scritto a inizio di questo articolo ci sembra così attuale. Antron, Kevin, Yusef, Raymond e Korey sono vittime di un sistema giudiziario corrotto, pronto a incastrarli anche nel momento in cui non si trova l’arma del delitto, non ci siano prove che li vedano come gli artefici dello stupro e come neanche le sequenze temporali del loro passaggio al parco coincidano. Le versioni che sono costretti a riferire sono costraddittorie, tanto che i ragazzi neanche avevano visto di sfuggita la jogger aggredita, ma vengono comunque colpevolizzati. Viene coniato il termine “brancheggiare”, quello delle violenze compiute in branco per il mero divertimento. Cinque ragazzi di sedici anni, costretti a passare da un giorno all’altro da ragazzini a uomini, a dover fare i conti con un processo che vuole etichettarli come colpevoli e una città che li vede come il marcio in una bolla di perfezione. Dopotutto non è lo stesso che vediamo ancora oggi? Non sarà un mese che farà cambiare il modo di pensare delle persone perché, come disse Morgan Freeman: “La storia dei neri è la storia americana” ma, dopo Antron, Kevin, Yusef, Raymond e Korey, dopo Floyd e Breonna Taylor, per lo meno niente passa più ignorato.

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