giovedì 29 ottobre 2020

#Halloween: Distorsione

Come ogni mattina, mi sveglio verso le sei e mezzo perché devo fare colazione o a metà mattina cominceranno a venirmi i crampi allo stomaco. Quindi mi faccio una doccia, mi asciugo per benino e mi vesto. Semplice, non mi piacciono i fronzoli. Un paio di jeans ed una felpa rossa andranno più che bene. Non mi importa del trucco, non ora per lo meno. Devo andare a scuola. Chi se ne frega del trucco. Mangio i miei cereali con il latte, mi lavo i denti, lego i capelli in una coda che mi arriva almeno fino al fondo della schiena e, con le sneakers che mi ha comprato papà per il compleanno, esco. 

Non parlo molto in generale perché mi infastidisce parlare con le persone. Sono una ragazza silenziosa. E poi, perché parlare con me? Tutti mi considerano la grassona, quella strana con una lametta come ciondolo al collo. Quindi non mi sorprende mai che fra i corridoi nemmeno una persona mi rivolga anche solo un piccolo sguardo. Mi siedo all’ultimo banco, in classe di matematica, e mi annoio. Mi annoio da morire. Le uniche lezioni davvero interessanti sono quelle umanistiche. Mi perdo a sentire i versi ricamati da Shakespeare o Keats. O le teorie masochiste di Schopenhauer. A matematica e fisica mi annoio da morire. 
Pranzo sempre da sola e con un panino o della pasta che mi cucino a casa. Oggi ho preparato un panino con del prosciutto e della maionese. Semplice, ma mi andava cosi. Non so, mi sento strana. Ho lo stomaco perennemente vuoto, la testa mi scoppia. Probabilmente ho mangiato qualcosa che non va e adesso la sto pagando. Dovrei chiedere a mamma di farmi i test allergici. È un medico. Può farlo. 
Altre tre ore di lezione e poi, per fortuna, riesco ad uscire da questa diavolo di scuola. Come ogni giorno, mi dirigo verso il parco. C’è un meraviglioso parco vicino casa mia. In autunno, si dipinge di arancione e giallo, le foglie scricchiolano sempre sotto le mie scarpe. Questa volta però lo strato di foglie cadute dev’essere molto poco spesso. La mia camminata è stranamente silenziosa. Saluto il ragazzo che vende gelati nel solito piccolo posticino, sotto una quercia di dimensioni spropositate, ma lui non ricambia. Non deve avermi vista. Dopotutto, c’è sempre un sacco di gente a quest’ora che si ferma a chiedergli un gelato. Scrollo le spalle e me ne vado via. Ho lo stomaco in subbuglio, non posso mangiarmi qualcos’altro. Non ho voglia di vomitare su questi bellissimi colori. 
Prima che cali il sole, in genere, non rientro. Saranno circa le sei di sera quando ritorno verso casa. I miei pomeriggi li spendo sempre seduta o sdraiata su una panchina a leggere libri e ascoltare musica. E poi mi avvio a casa poco prima che mamma torni. Così non si preoccupa. Oggi, però, è già li. Sulla soglia di casa, che piange e parla con un paio di omoni in divisa. 

<Mamma!> Mi avvicino quasi correndo. <Che succede?> 

Non risponde. Sembra quasi che non mi veda. Urlo ancora, le pungolo un braccio. Nulla. Entro dentro casa. Altri agenti stanno parlando con papà. Anche lui a casa? Ma lui avrebbe avuto il turno di notte. Lo chiamo, ma anche lui sembra non sentire niente. Nè la mia voce nè il mio tocco. Salgo di sopra, verso la mia stanza da letto. C’è un corpo sul materasso. Due uomini sulla sessantina bofonchiano su lacci emostatici e siringhe e sangue. Che sia successo qualcosa a mio fratello John? Mi avvicino per guardare meglio. 
La testa comincia a fare davvero male, come se stesse per esplodermi. Sento il petto in fiamme, non riesco a respirare. Un miliardo di voci si insinuano nella mia mente. “Puttana”, “obesa del cazzo”, “maiale”. Vedo la mia mano, tremendamente sfocata, prendere un cucchiaio e scioglierci dentro qualcosa di simile ad un cristallo. La mano opposta asciuga le lacrime che scendono dai miei occhi e prende una siringa. Una di quelle molto sottili, con l’ago lungo. Aspiro quel liquido con la siringa, spingo fuori l’aria. Mi lego con i denti un laccio di scarpe poco sopra il gomito. Mi picchietto l’interno del gomito con indice e medio della mano destra. Una vena salta fuori, violacea, sotto la mia pelle chiara. Ci infilo l’ago e spingo ogni millilitro di quel liquido dentro di essa. La testa gira, fortissimo. La stanza sembra perdere forma, le linee si trasformano in onde che mi soffocano lentamente. Tentacoli che stringono la mia gola, che annebbiano la mia vista. D’un tratto, il nulla. 
Sussulto, come se mi fossi svegliata da un brutto incubo. Ma quello un incubo non è. Quel corpo, sul letto. Quella sono io...

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Racconto scritto da Claudia!
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