lunedì 5 ottobre 2020

#Libri: H

Noi di 4Muses abbiamo a cuore tutto ciò che è vita: l’arte, la cultura, ma anche e soprattutto l’umanità. Umanità non intesa come esseri umani che nascono, crescono e muoiono, ma proprio come Essere. Non ci identifichiamo in un solo modo: noi siamo tutto. Siamo nella ragazza che va a scuola, siamo nel dirigente (stiamo utilizzando il neutro) troppo stressato dalla vita, siamo nella persona che non riesce a uscire dai suoi problemi. Ma soprattutto siamo la voce di chi non può esprimersi a pieni polmoni, siamo gli occhi di chi non può vedere, le orecchie di chi non può sentire.

“Basta non fermarsi, rimanere sempre in marcia verso piccole mete e la strada si farà.”

Il libro di Lidia Calvano, H, vincitore del premio EWWA 2017, è un megafono che fa risuonare i pensieri di tutti quei bambini, ragazzi e adulti che non riescono a entrare appieno nella società perché la società non ha abbastanza pazienza (noi personalmente diremmo voglia) di starli ad ascoltare.

“Fu però quando sentii parlare di destino che compresi che forse ci poteva essere un significato anche nella mia vita, così diversa da quella degli altri.”

Il protagonista è un bambino di dieci anni affetto da una grave disabilità: non vede, non parla, non si muove. Ma ascolta ed è cosciente di ogni cosa lo circondi. Proprio per questo io personalmente ho apprezzato tantissimo la scelta dell’autrice di scrivere in prima persona, dal punto di vista di lui. È al centro di tutto, noi vediamo la realtà attraverso la sua percezione, che a conti fatti non è davvero così diversa da quella che la società definisce “normale”.

Non ho avuto nessuna difficoltà a immaginarmi l’ambiente, i personaggi che ruotano attorno alla sua vita, alla sua casa, al suo corpo. Più volte mi sono fermata a pensare: “Perché i ragazzi così non vengono considerati abbastanza? Serve davvero saper parlare o comunicare nel modo conosciuto per essere presi sul serio?”. Come comunichiamo con i neonati, così possiamo comunicare con qualsiasi essere vivente, basta saper cogliere i segnali. Quindi, forse, non è per mancanza di volontà della società stessa se vengono dimenticati e messi in un angolo?

“Ma io so che mi ascolta e mi capisce. Capisce tutto. Anche se non può parlare.”

 La forza di H è in sua madre, Marta. È una donna che ha sacrificato tutto per lui: la sua vita, il suo rapporto con il marito, e che lo ha fatto senza pensarci un attimo. H a volte si sente in colpa per questo legame così dipendente, ma a tutto c’è un perché, bisogna solo attendere di avere la risposta. Marta lo tratta nel modo giusto: gli dà dignità, lo fa sentire apprezzato e parte della Vita.

Vive suo figlio come lo avrebbe vissuto se fosse stato sano. Gli parla, gli racconta della sua giornata, gli parla della vita degli altri. Lo osserva e da ogni movimento capisce esattamente le sue emozioni, i suoi pensieri.

Il libro è anche un vero e proprio thriller, dove H ha il ruolo chiave: lui è il testimone più importante in un caso di omicidio. E anche qui ho apprezzato veramente molto la scelta della Calvano.  

Più volte ho dovuto interrompere la lettura, sia per asciugarmi il viso dalle lacrime, sia per seguire il mio filone di pensieri. Ho sempre saputo che le persone con disabilità hanno coscienza. Ho avuto la fortuna di lavorare con loro per un periodo della mia vita, ed è stata l’esperienza che mi ha dato più ricchezza in assoluto.

Eppure, perché vengono abbandonati a loro stessi? Perché le famiglie non vengono aiutate, garantendo a questi ragazzi il rispetto che meritano? Sui social si affrontano tante battaglie, tutte sacrosante, ma perché non si fa nulla per i ragazzi con gravi disabilità? Perché non si aiutano tutti quelli affetti da malattie rare?

“A volte vorrei che voi persone normodotate vedeste meno con gli occhi e ascoltaste molto di più con il cuore.”

Durante la quarantena ho passato il tempo a vedere video di tre pagine su Facebook: "Il sorriso negli occhi di Micol", "Genny Autismo" e "Autismo in movimento". So che ne esistono molte altre così simili, e mi scuso se non le cito. Sono un’anima anni ’60 che vive nel 2020, e per me è già tanto riuscire a fare il login in su Facebook. Ogni video, post o diretta condivisa è uno spaccato di quotidianità che vivono questi ragazzi con le loro famiglie. So delle loro difficoltà perché ne parlano, e anche se riescono ad arrivare a ministri, o alle regioni, tutto ciò che hanno sono molte promesse, nessuna delle quali mantenute. Perché?

“Perché roviniamo il panorama, ispettore. Perché i bambini ci guardano e fanno domande scomode ai genitori. Perché li costringiamo a sentirsi fortunati per quello che hanno.”

La risposta mi è arrivata in queste righe. Siamo noi, noi gente “normodotata”, o quella che nonostante delle lievi mancanze ha comunque imparato a vivere adeguandosi alla norma, che tendiamo a escludere il prossimo? Per cosa, perché ci scocciamo a fermarci e stare alle regole di altri? Ma non è forse questo che avrebbe dovuto insegnarci la quarantena? Rallentare, osservare e comprendere.

Più volte vi abbiamo ripetuto che gli altri siamo noi, e non lo facciamo di certo con superiorità o giudizio. Lo facciamo perché ci crediamo sul serio. Dobbiamo davvero aspettare di ritrovarci nella stessa situazione per comprendere e aiutare? A cosa può portarci guardare solo il proprio orticello? Perché non alziamo lo sguardo anche su quello degli altri per aiutare, e non solo per giudicare?

“Ma tutto, in natura, è in evoluzione. Non ero così sprovveduto da non saperlo ma, al contrario, così saggio da godere ogni istante del precario equilibrio che vivevamo.”

In un mondo dove tutti vogliono rincorrere la felicità effimera, dove più si ha, meglio si sta, non sono forse persone come Micol, Gennaro e Gaetano (ripeto che cito i loro nomi perché sono a conoscenza della loro storia) a insegnarci più di chiunque altro?

Per loro ogni giorno è una vittoria, loro hanno le stesse nostre emozioni, loro si entusiasmano, ma a differenza nostra, ne sono coscienti al cento per cento. Vivono molto più di noi perché rimangono sul momento presente.

Noi facciamo colazione e pensiamo alla riunione del pomeriggio. Stiamo al mare e pensiamo a quale locale andare la sera. Stiamo con una persona e pensiamo che forse è meglio fare altro… Ci siamo mai soffermati sulle nostre piccole vittorie? Abbiamo mai assaporato l’eterno istante? Abbiamo veramente goduto di ciò che abbiamo?

“Mi sarebbe tanto piaciuto saper parlare, per poter dire almeno ‘grazie’.”

Questa è forse la frase che più mi ha emozionata del libro. Perché sono stata così intenta a pensare cosa noi possiamo fare per loro, che non ho mai potuto pensare a quello che loro vorrebbero fare per noi. Ma il grazie, sono sicura, lo sanno esprimere in altri modi. 
Impariamo a conoscerli.

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