venerdì 26 agosto 2022

#Libri: Mariti e mogli

Il titolo può riportare al noto film di Woody Allen, ma oggi siamo qui per parlarvi del libro di Ivy Compton-Brunett – scrittrice inglese del Novecento – rimasto inedito in Italia fino a oggi: “Mariti e mogli”, appunto. Il romanzo uscì nel Regno Unito nel 1931 e già dalle primissime pagine capiamo perché in Italia ha avuto vita difficile: parlare in modo così leggero di suicidio non è una scelta che molti accettano.

Ebbene, probabilmente già sapete dove vogliamo andare a parare; parliamo spesso e volentieri di suicidio, essendoci passati, non vi neghiamo che la leggerezza non sempre è superficialità, e che anzi: non prendersi troppo sul serio è una potente medicina. Per questa volta, invece, passiamo. Nonostante possa sembrare il punto cardine del romanzo, oggi vogliamo parlarvi più del rapporto genitori e figli e di quanto sia fondamentale in questo amore lasciare che ogni cosa sia.

Al solito, ringraziamo la Fazi Editore per averci permesso di leggerlo in anteprima!

Harriet Haslam è una donna sicuramente forte e sicura di sé. È sposata con Godfrey, un uomo più accondiscendente, si potrebbe dire arrendevole, ma che dimostra una forza – soprattutto di riflesso – che non molti possono avere. Hanno quattro figli: Matthew, Jermyn, Griselda e Gregory. Ogni figlio dà ai genitori diversi problemi, anche se effettivamente così non possono definirsi.

Nessuno nel nostro team è genitore, ma possiamo bene immaginare quanto sia dura per chi lo è mettere al mondo una persona, crescerla e scoprire che hanno delle aspirazioni lontane dalle proprie. Attenzione: non giustifichiamo e meno che mai siamo d’accordo con questo pensiero, sappiamo solo che può essere difficile; lo è fintanto che il genitore vede il figlio come una propria estensione, invece che una vera e propria persona.

Harriet e Godfrey hanno vissuto la loro vita come era richiesto loro nella società di inizio Novecento: una bella casa, dei servitori, amici da intrattenere per il tè o la cena, devozione verso Dio, beneficenza e soprattutto mai scandali.
I loro figli, però, tendono a comportarsi in maniera leggermente diversa: Matthew, aspirante medico, non vuole cominciare la carriera dedicandosi ai suoi pazienti, bensì alla ricerca, campo quasi sconosciuto all’epoca e che non dava molti sbocchi economici in quell’Inghilterra. Jermyn sogna di diventare un poeta, affida le sue emozioni alla carta e alla penna e anche con il sostegno economico del padre, viene comunque canzonato e desta preoccupazioni nella madre, che non lo vuole povero e senza un quattrino. Griselda ama il reverendo Bellamy, è ricambiata e questo è un bel problema, visto che il reverendo ha da poco ottenuto il divorzio. Essere la seconda moglie, probabilmente con una passione nata durante il suo matrimonio, non è ciò che si addice a una brava ragazza di famiglia. Gregory, il figlio minore, giovane che si affaccia all’età adulta, sembra apprezzare molto di più la compagnia delle donne mature, praticamente anziane, con le quali trascorre gran parte delle sue giornate.

Insomma, i quattro figli, nonostante dei comportamenti innocui per la società, suscitano problemi e infelicità alla madre, che così tenta il suicidio. Che sia per depressione o per mancanza di controllo sui figli, Harriet è costretta a rimanere chiusa in un istituto. Ne esce dopo sei mesi, felice, entusiasta. Ammette di amare i suoi figli a prescindere dalle loro decisioni, ma sarà davvero così?

Non diremo di più, per non fare ulteriori spoiler. Vogliamo soffermarci molto sul concetto di sofferenza, però.

sofferenza


/sof·fe·rèn·za/

Origine

Dal lat. tardo sufferentia ‘sopportazione, pazienza’, der. di suffĕrens -entis, p. pres. di sufferre ‘soffrire’ •sec. XIV.

Non è mai una certa situazione a farci soffrire, bensì il peso che noi le diamo. Se Harriet avesse accettato fin da subito le aspirazioni e le scelte di vita dei suoi figli, invece di imporre un controllo, di certo non avrebbe sofferto così tanto. In effetti il marito, pur non condividendole appieno come la moglie, lascia che siano i figli a decidere per loro e non ne porta il peso infimo.

Sopportare e avere pazienza sono vere e proprie virtù, ma quando cediamo troppo nel loro stato, ecco che cominciamo a soffrire, a stare male. Il tutto diventa patologico quando non riusciamo a mollare la presa, a lasciare che il tutto semplicemente sia.

Amare è sopportare e avere pazienza, fino a qui siamo tutti d’accordo. Ma nelle relazioni d’amore o amicizia abbiamo un grande vantaggio che in una relazione genitori-figli non c’è: possiamo chiudere il rapporto. Se ogni tanto possiamo ripensare a un ex fidanzato o a un ex amico, con un genitore o figlio è praticamente impossibile, perché la relazione permane persino dopo la morte.
Sappiamo che ci sono casi dove genitori e figli non si parlano, e non vogliamo aprire quel vaso di Pandora in questo articolo, diciamo solamente che, per quanto si possa dire: “Non mi interessa più”, genitori e figli saranno sempre e per sempre legati.

Ecco perché i primi vogliono che si faccia sempre a modo loro e non accettano facilmente altre idee, ed ecco perché i secondi sono più orientati verso il volere dei primi che il loro.

Il consiglio che ci sentiamo di dare a entrambi è di essere quanto più ribelli possibile.

ribelle

/ri·bèl·le/

aggettivo

Origine

Dal lat. rebellis, der. di rebellare ‘riprendere la guerra’ •sec. XIV.

Dentro ogni genitore che non accetta il volere del figlio c’è quasi sempre un figlio che non si è ribellato ai genitori. Riprendete la “guerra” con l’ironia e l’eleganza che vi ha mostrato Ivy Compton-Brunett nel libro “Mariti e mogli”, da oggi disponibile in tutte le librerie.

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