venerdì 23 giugno 2023

#Arte: Gli ombrelli

Gli ombrelli”, Pierre-Auguste Renoir, 1881-1886.
Com’è che si chiama? Sindrome di Stendhal?
Sì, insomma, quella sensazione che ti fa emozionare tantissimo davanti a determinate opere d’arte e ti fa avere a volte anche reazioni esagerate e fuori luogo si chiama così, no?

Perché spesso ci capita di avere delle reazioni esagerate – noi quattro Muse, tutte quante, sappiamo come essere delle drama queen di primo livello quando vogliamo –, ma alla fine sappiamo quasi sempre fare un passo indietro e guardare le nostre reazioni, accettare quali sono state esagerate senza motivo e quali, invece, magari sono state anche giustificate.

Col senno di poi, valutando anche il dilemma in cui la Musa che sta scrivendo questo articolo si trovava in quel suo anno sabbatico della vita – “che voglio fare nella mia vita?” – non crediamo che la reazione emotiva avuta sia stata semplice Sindrome di Stendhal, ma qualcosa di più, una realizzazione: quella di dover rendere l’arte la propria missione nella vita.
Ma perché da quel momento i dubbi sul futuro sono spariti e i dilemmi sono sembrati improvvisamente inutili e siamo abbastanza sicure – ma ovviamente potete correggerci se sbagliamo – che la Sindrome di Stendhal non porti alla risoluzione di mesi e mesi di paranoie.
È ovviamente conservato a Londra (precisamente alla National Gallery) “Gli ombrelli”, olio su tela dipinto da Pierre-Auguste Renoir  tra il 1881 e il 1886. 
In tutto il blu in cui ci troviamo immersi non appena guardiamo anche solo di sfuggita il quadro non è facile captare né il soggetto della tela né, se è per questo, quanti sono i soggetti della tela. È la donna dai capelli ramati intenta a sorreggere la cesta e che sembra guardarci dritti negli occhi? È l’uomo dietro di lei che la osserva attento? Sono le due bambine con quella che potrebbe essere tranquillamente una loro figura materna? Sono, come suggerisce il titolo del quadro stesso, la miriade di ombrelli?
La risposta in realtà è no a tutte questa domande. Ne “Gli ombrelli”, a essere al centro del quadro è il caos della società parigina dell’epoca. 

Parigi, che affiancata e affiancando le più grandi città italiane è sempre stata considerata la capitale sociale e culturale per eccellenza dell’arte e degli artisti e che si è trovata di conseguenza a essere una città in costante movimento e sovraffollamento.
Sovraffollamento è esattamente la sensazione che si ha se ci si sofferma a guardare questa tela, se ci si sofferma a guardare oltre i quattro apparenti protagonisti del dipinto. È quasi claustrofobica la sensazione che si prova guardando lo sfondo dell’opera, guardando tutti quegli ombrelli aperti uno ammassato sull’altro.
Claustrofobica e fastidiosa. 

dettaglio
La prima cosa che salta subito all’occhio è l’evidente differenza stilistica tra la ragazza dai capelli ramati – la midinette – e il ragazzo alle sue spalle e tutti gli altri personaggi raffigurati nel quadro.
Renoir iniziò a dipingere questo quadro nell’81, poco prima del suo viaggio in Italia che ebbe inizio nel 1882 e lo fece approdare a Venezia

Impressionismo, ecco cosa era la Francia in quel periodo, e artisti come Claude Monet, Berthe Morisot, Edgar Degas, Paul Cézanne e Renoir stesso non ci misero molto ad aderire a quel nuovo movimento che aveva così tanta voglia di ribellarsi al Realismo del tempo. Tipicamente impressionista è tutto il lato destro del quadro, ma lo è in particolar modo la bambina con il cerchio in mano e lo è sua madre, la cui figura è dipinta con pennellate così delicate che sembra quasi mescolarsi con lo sfondo, e di fatto si mescola con lo sfondo. Proprio perché di stile canonicamente impressionista, la figura della donna non vanta di certo di bordi ben delineati, e questo fa sì che solo due cose della sua figura riescano a spiccare veramente: la mano che impugna l’ombrello e il volto. 

Quasi di fianco a lei, sul lato sinistro, è impossibile non notare anche il completo opposto, quello che Renoir concluse nell’86 una volta tornato in Francia: una (in realtà due, ma la ragazza sembra essere l’unica) figura ben delineata e ben dettagliata. Più la si guarda, meno si fa caso alla sua presenza e al suo stile accademico, ma c’è, è inevitabile.

Scrivendo l’articolo e riguardando la stampa comprata allo shop del museo dopo aver concluso la visita, ci siamo rese conto di una cosa, osservandola bene e provando a farlo come abbiamo fatto in quel freddo Novembre del 2019: entrando in quella stanza quarantuno dell’Ala Est, “Gli ombrelli” è stato non il primo quadro che abbiamo visto, ma il primo che abbiamo veramente guardato. 

Non perché l’abbiamo voluto guardare, ma perché nell’atto di voltarci per parlare con la nostra accompagnatrice l’abbiamo dovuto guardare: era dietro di lei e lo schiaffo emotivo che abbiamo ricevuto è stato da subito così forte che non dargli attenzione sarebbe stato veramente da stupide. A guardarlo, poi, non c’era nessuno; probabilmente erano tutti intenti a guardare le Ninfee o gli Iris di Monet (che possono essere ammirati nella medesima stanza) per prestargli attenzione.

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