lunedì 19 giugno 2023

#StorieRomane: La fuga di Cellini

Che crediate o no al sovrannaturale, non è raro imbattersi in leggende esoteriche in una città come Roma.     
L’essere riconosciuta come metropoli dall’alba delle sue origini, ha fatto in modo che le energie dei suoi abitanti passati rimanessero ancorate ai luoghi da loro più apprezzati o temuti. Ma non solo... ogni nostra azione ha delle conseguenze, sia sul piano materiale che su quello spirituale.


È questo il caso di quanto successo all’artista a tutto tondo Benvenuto Cellini che per una libertà di poche ore ha reso un’anima eternamente prigioniera.  

Parliamo brevemente della sua vita: Benvenuto Cellini nacque a Firenze la notte tra il 1° e il 2 novembre 1500. 
Il padre Giovanni era un suonatore di strumenti musicali e intagliatore d’avorio, per questo Benvenuto crebbe fin da bambino circondato dal mondo dell’arte.
Se per il padre la musica era tutto, però, per il figlio era definita “il maledetto sonare” e nel 1513, con buona pace del padre, inizio a frequentare la bottega dell’orafo Michelangelo Bandinelli per un obiettivo non da poco: divenire “il primo homo del mondo nel campo dell’arte orafa”.
Ma il suo carattere inquieto e rissoso cominciò a farsi strada, tanto da essere esiliato assieme al fratello Cecchino a Siena, continuando però a studiare oreficeria alla bottega di Francesco Castoro.
Dopo un breve ritorno a Firenze, sempre per assecondare il padre nella musica, Benvenuto si trasferì nuovamente a Siena per intraprendere lo studio di opere antiche, per poi tornare ancora alla sua città natale dove iniziò una relazione clandestina con Francesco Salimbene, suo collega orafo.

Ma il carattere di Benvenuto non poteva essere messo a tacere, neanche con l
’amore di mezzo, così si trasferisce di nuovo a Siena, poi a Roma.

Gli anni ’20 del Cinquecento continuano a essere per lui motivo di spostamenti tra Siena, Firenze e Roma, ma nell’Urbe trova un po’ di stabilità quanto entra nella cerchia di papa Clemente VII prima e Paolo III dopo.     
Possiamo solo fare una menzione superficiale del coraggio che ha dimostrato con il Sacco di Roma, rimanendo sempre accanto al pontefice durante l’arrivo dei lanzichenecchi. Tale prova eroica gli valse la benedizione da parte del pontefice stesso.

Con Paolo III sul trono vaticano, Benvenuto diede prova di non trovarsi tanto bene con Pier Luigi Farnese, figlio del pontefice, tanto da doversi trasferire a Parigi, nel 1537, per scappare dall’odio del Farnese. Quest’ultimo, però, riuscì a far imprigionare il Cellini a Castel Sant’Angelo con l’accusa di aver rubato alcuni beni di Clemente VII durante il Sacco.

Ed è da qui che ha inizio la nostra storia.


Benvenuto, imprigionato in una delle carceri più dure dei tempi, attese giorno e notte il momento giusto per evadere. Alla prima notte senza luna, aiutato dal buio pesto, si calò grazie a delle lenzuola legate tra di loro, che però non riuscirono ad arrivare fino a terra. Nel buttarsi al suolo, Benvenuto si ruppe una gamba e perse completamente i sensi.
Si risvegliò il mattino dopo, a causa dei morsi dei cani che stavano cominciando a strappargli le carni. Resosi conto di avere la morte vicina, riuscì a scappare – forse facendosi guidare dall’adrenalina in corpo – e raggiunse Trastevere, dove cercò disperatamente aiuto, prima da un passante, poi da un cardinale. Quest’ultimo lo aiutò a guarire ma poi, riconosciuto, lo riconsegnò alla giustizia.

Se durante la prima prigionia aveva diritto ad alcuni privilegi, come una stanza più ampia e soleggiata, persino delle lenzuola, con la seconda perse ogni diritto che lo avrebbe favorito rispetto agli altri detenuti e gli toccò una stanza angusta, perennemente umida e piena di tarantole e vermi velenosi. A tutto ciò si dovevano aggiungere le torture quotidiane alle quali, forse, Benvenuto era meno vittima. Questo, però, lo segnò lo stesso a vita.


Definitivamente liberato sul finire del 1939, il Cellini portò quei mesi in eterno dentro di sé. La prigione lo inseguiva nei suoi incubi notturni, ma anche nelle allucinazioni che lo tormentavano alla luce del giorno. La sua psiche era definitivamente compromessa, come se un pezzo della sua anima fosse rimasto nella sua minuscola e oscura cella. Ma se tutto questo può risultare triste e inquietante, non è ancora finita qui.
Ai tempi, infatti, a guardia della prigione vi era il castellano, definito “uomo-pipistrello”, sia per come si presentava – veste totalmente nera, messa in modo da non mostrare mai il volto – sia per prendere in giro chi vi era rinchiuso, in modo tale che la paura vincesse sull’istinto di sopravvivenza, smorzando ogni voglia di scappare via.

Tale guardiano aveva non solo il compito di sorvegliare e garantire la massima sicurezza di Castel Sant’Angelo, ma anche quello morale di farsi vedere come una creatura sovrannaturale, alla quale è impossibile sfuggire.

Nessuno riuscì a trovare la libertà prima di Benvenuto Cellini – anche se per poche ore – da quel luogo e l’incompetenza dell’“uomo-pipistrello” che doveva vigilare fu un danno morale per l’anima dell’umano con quell’ingrato compito.

Si dice, infatti, che da quel momento la sua anima è all’interno del Castello, destinata a rimanerci per l’eternità.

Se vi aggirate per lì – e quest’estate vi potrebbe capitare, dati i numerosi eventi all’insegna dell’arte – e vedete volare un pipistrello, potrete sicuramente ripensare a tutta questa vicenda.

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