sabato 29 ottobre 2022

#DivinaCommedia: Canto XVIII

Come sempre accade quando ci apprestiamo ad analizzare i Canti della Divina Commedia, l’introduzione sarà piuttosto breve, perché già la descrizione richiede molto tempo e amiamo andare dritti al punto. Oggi analizziamo il diciottesimo Canto, quello dedicato ai ruffiani, ai seduttori e agli adulatori.

Come al solito, vi ricordiamo che ne parliamo dal punto di vista esoterico e in linea con quello che è il nostro Cammino Iniziatico.

Attenzione, perché qui sia i peccati che la loro motivazione, sono estremamente difficili da vedere. Come noterete, sono azioni che svolgiamo praticamente tutti, ma che quando pensiamo al motivo per cui agiamo in un determinato modo, non sappiamo mai quale sia quello giusto. Ce la raccontiamo, ci diciamo che lo facciamo senza malizia, senza un tornaconto personale, ma quanto sbagliamo...

Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.

Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui suo loco dicerò l’ordigno.

Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra ‘l pozzo e ‘l piè de l’alta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo.

Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,

tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da’ lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli,

così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e ‘ fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli.

Come già accennato nell’introduzione, stiamo arrivando alla parte più oscura e difficile dell’Inferno, ma questo non deve scoraggiarci. Infatti, dal punto di vista del Cammino Iniziatico, è una grandissima vittoria essere arrivati fino a qui perché vuol dire che siamo a un passo dalla nostra purificazione. Certo, ciò che vedremo ci potrebbe spaventare parecchio.

Dante inizia subito a descriverci le Malebolge: un luogo interamente formato da pietra di color del ferro, la sua parete rocciosa è suddivisa in dieci fossati concentrici, chiamati Bolge. Nel mezzo troviamo un baratro, somigliante a un pozzo profondo, che ci porterà al Nono Cerchio. Ogni Bolgia è collegata da dei ponticelli, sempre rocciosi, simili ai ponti levatoi che vengono utilizzati da protezione nei castelli.
Il termine “bolgia” è sinonimo di “borsa”, il che ci fa pensare anche al fatto che i dannati siamo come gettati in una sacca, dalla quale difficilmente possono uscire.

Ora, è vero che la pietra e il ferro ci fanno pensare a un ambiente duro, difficile, così come il pozzo, ci sentiamo quasi senza via d’uscita, anche per la crudeltà dei peccati che abbiamo commesso… ma siamo qui per andare oltre tutto ciò.
Nell’esoterismo il pozzo è simbolo di un portale tra cielo e terra. È vero, calandoci nel pozzo andiamo nel profondo, e proprio per questo siamo più vicini a tutto ciò che è divino. In effetti, è scendendo all’Inferno che Dante trova l’uscita da esso.
La pietra, sempre dal punto di vista dell’esoterismo, ha come significato l’origine primordiale, tutte quelle emozioni e pulsioni basiche, ma non per questo sbagliate. 

Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa.”

Pietro era un pescatore, di animo instancabile ma anche aggressivo. Vi ricorderete, infatti, che fu proprio Pietro a ferire, tagliando l’orecchio, una delle guardie arrivate per l’arresto di Gesù; eppure, è il primo Papa, è colui che dà origine alla Chiesa, alla comunità cristiana.
È con la pietra che il porcellino più laborioso trova la salvezza dal lupo. È con la pietra, che fin dalla nostra origine, noi ci sentiamo al sicuro, tanto da considerarla come prima arma in grado di proteggerci, sì, ma anche di uccidere.
Il ferro non è presente qui come elemento, ma solo come colore. Non per questo, però, dobbiamo ignorare il suo significato esoterico. Il ferro è l’elemento più diffuso nell’Universo, è governato da Marte e nell’alchimia rappresenta l’energia maschile, la potenza e l’aggressività. La spada è fatta di ferro (la stessa spada con cui Pietro ferisce la guardia). Proprio per tutto questo è considerato il metallo più umano. Dicevamo che nelle Bolge è presente solo come colore, forse perché ogni azione meschina qui intrapresa, ha comunque un retrogusto di umanità

In questo luogo, de la schiena scossi
di Gerïon, trovammoci; e ‘l poeta
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.

A la man destra vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta.

Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso ‘l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori,

come i Roman per l’esercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,

che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ‘l castello e vanno a Santo Pietro,
da l’altra sponda vanno verso ‘l monte.

Di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti con gran ferze,
che li battien crudelmente di retro.

Ahi come facean lor levar le berze
a le prime percosse! già nessuno
le seconde aspettava né le terze.

Scesi dal dorso di Gerione, Dante e Virgilio proseguono il loro cammino verso sinistra. Dante nota già come vengono puniti qui i peccatori: sono nudi, procedono in due schiere opposte tra di loro, proprio come accadeva ai fedeli che si recano a Roma durante il Giubileo. Per motivi di ordine e sicurezza, il ponte di degli Angeli veniva diviso in due corsie, una per andare verso San Pietro, l’altra con il Castel Sant’Angelo alle spalle. Possiamo quindi immaginare il grande numero di peccatori qui presenti, proprio per quello espresso prima: qui i peccati riguardano veramente tutti.

Dei diavoli colpiscono le anime alle spalle, frustandole senza mai fermarsi. Da questa legge del contrappasso capiamo subito che si trattano di ruffiani e seduttori: coloro che hanno ingannato donne o uomini per il piacere altrui (i primi) o il proprio (i secondi). Il peccato è grave, perché colpisce direttamente la purezza dell’amore. E se vi state dicendo: “Ma io non sono così…” perfetto, prima di averne la convinzione, rispondete a questa semplice domanda: “Quante volte avete mentito a una persona per farvi vedere più interessante ai suoi occhi?”.
Ricordiamoci che l’amore non è mai possesso ed è per questo che ogni volta che controlliamo qualcuno, che lo manipoliamo rendendoci come ci vuole, lo stiamo ingannando, oggettificandolo. Lo trattiamo come un burattino sotto i nostri fili. Davvero ne siamo esenti?

Insomma, come i peccatori hanno agito alle spalle delle persone, così vengono puniti per l’eternità dai diavoli, che qui, per la prima volta, infliggono pene presenti nel pensiero popolare dell’epoca. Non c’è dubbio, quindi, che ci troviamo di fronte ad azioni gravissime.

Mentr’io andava, li occhi miei in uno
furo scontrati; e io sì tosto dissi:
«Già di veder costui non son digiuno».

Per ch’ïo a figurarlo i piedi affissi;
e ‘l dolce duca meco si ristette,
e assentio ch’alquanto in dietro gissi.

E quel frustato celar si credette
bassando ‘l viso; ma poco li valse,
ch’io dissi: «O tu che l’occhio a terra gette,

se le fazion che porti non son false,
Venedico se’ tu Caccianemico.
Ma che ti mena a sì pungenti salse?».

Ed elli a me: «Mal volentier lo dico;
ma sforzami la tua chiara favella,
che mi fa sovvenir del mondo antico.

I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,
come che suoni la sconcia novella.

E non pur io qui piango bolognese;
anzi n’è questo loco tanto pieno,
che tante lingue non son ora apprese

a dicer ‘sipa’ tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio,
rècati a mente il nostro avaro seno».

Così parlando il percosse un demonio
de la sua scurïada, e disse: «Via,
ruffian! qui non son femmine da conio».

Ora Dante vuole vedere meglio, perché il luogo è molto nascosto e per questo, assieme a Virgilio, si avvia verso il primo ponte. Lo attraversano fino ad arrivare al punto più alto, dove da lì possono vedere l’interno della Bolgia.
Dante, guardando in faccia i dannati, riconosce Venedico Caccianemico (1228-1302), un guelfo bolognese che nel 1274 riuscì a sconfiggere la fazione dei ghibellini, esiliando i capi. A differenza con quanto accaduto per le anime precedenti, Venedico non vuole avvicinarsi a Dante, anzi, si nasconde quando nota che il Poeta lo ha riconosciuto.

Bene. Non è per caso quello che alcuni di voi possono aver pensato precedentemente? Quando è saltato per la testa: “Ma io mica sono un ruffiano o un seduttore…”. Tranquilli, ci siamo passati tutti, anche noi. Da questo punto in poi, infatti, riconoscere i propri peccati è alquanto difficile. Non vogliamo vederli, ce ne vergogniamo, o non li reputiamo così gravi. Nonostante l’imbarazzo che prova, però, Venedico ammette a Dante la propria colpa: lui convinse, manipolandola, la sorella Ghisolabella a sottostare all’interesse puramente sessuale di Obizzo d’Este, la cui casata ferrarese voleva espandersi verso Bologna. Venedico pensava che così facendo, potesse evitare una guerra.

Come per sminuire ciò che ha fatto, però, fa notare a Dante che la Bolgia è piena di bolognesi. Se ne lava le mani, come per dire che il suo peccato non ha origine da una sua scelta, bensì dal luogo di appartenenza. È insomma quando ci diciamo: “Non è colpa mia, lo fanno tutti…

Piccola nota: i più attenti si saranno accorti che Venedico è morto nel 1302, mentre il viaggio di Dante è ambientato nel 1300. Vero, è un piccolo errore del Poeta che ovviamente non possiamo biasimare: all’epoca non poteva contare su una breve ricerca Google.

I’ mi raggiunsi con la scorta mia;
poscia con pochi passi divenimmo
là ‘v’ uno scoglio de la ripa uscia.

Assai leggeramente quel salimmo;
e vòlti a destra su per la sua scheggia,
da quelle cerchie etterne ci partimmo.

Quando noi fummo là dov’el vaneggia
di sotto per dar passo a li sferzati,
lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia

Lo viso in te di quest’altri mal nati,
ai quali ancor non vedesti la faccia
però che son con noi insieme andati».

Del vecchio ponte guardavam la traccia
che venìa verso noi da l’altra banda,
e che la ferza similmente scaccia.

E ‘l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: «Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda:

quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasòn, che per cuore e per senno
li Colchi del monton privati féne.

Ello passò per l’isola di Lenno
poi che l’ardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.

Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
che prima avea tutte l’altre ingannate.

Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martirio lui condanna;
e anche di Medea si fa vendetta.

Con lui sen va chi da tal parte inganna;
e questo basti de la prima valle
sapere e di color che ‘n sé assanna».

Il secondo condannato non è riconosciuto da Dante, ma indicato da Virgilio: è il seduttore Giasone, l’eroe greco, protagonista dell’impresa degli Argonauti che ingannò seducendo Isifile, regina di Lemno. Descrivere l’intero mito ci prenderebbe un altro articolo, così ci limitiamo a dire che Giasone sedusse la regina, lasciandola poi da sola e incinta. Lo stesso abbandono lo subì Medea, che però si vendicò uccidendo i figli di Giasone.
Da tutto ciò capiamo che anche se l’inganno è stato fatto per motivi più alti ed eroici, non per questo è esente dalla condanna, soprattutto se riguarda l’amore. Insomma: siate sempre sinceri nelle relazioni, non sbaglierete.

Già eravam là ’ve lo stretto calle
con l’argine secondo s’incrocicchia,
e fa di quello ad un altr’arco spalle.

Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,
e sé medesma con le palme picchia.

Le ripe eran grommate d’una muffa,
per l’alito di giù che vi s’appasta,
che con li occhi e col naso facea zuffa.

Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
loco a veder sanza montare al dosso
de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta.

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
che da li uman privadi parea mosso.

E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parëa s’era laico o cherco.

Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo
di riguardar più me che li altri brutti?».
E io a lui: «Perché, se ben ricordo,

già t’ho veduto coi capelli asciutti,
e se’ Alessio Interminei da Lucca:
però t’adocchio più che li altri tutti».

Ed elli allor, battendosi la zucca:
«Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe
ond’io non ebbi mai la lingua stucca».

Dante e Virgilio proseguono il loro cammino, ritrovandosi all’argine della seconda Bolgia, dove sono condannati gli adulatori. Si colpiscono con le loro stesse mani, le pareti sono ricoperte da muffa e quando i due vedono meglio, trovano i peccatori completamente immersi nello sterco. Qui il linguaggio comincia a essere veramente di basso livello, e crediamo che il contrappasso sia magnifico: persone che in vita hanno utilizzato parole melliflue, sempre buone (i classici lecchini, dai) sono ora descritti nel peggiore dei modi. Nelle parole di Dante c’è del vero e proprio disgusto nei loro confronti.

La presenza della muffa, ai nostri occhi, indica anche come l’adulazione sia la via più facile dall’ottenere qualcosa. Gli adulatori non hanno ruoli importanti o ricompense per il loro operato, non sanno cosa sia la meritocrazia ma tutto ciò che è stato dato loro, è figlio del puro e semplice servilismo. Difatti la muffa è lì per le esalazioni dell’alito, quindi da ciò che loro hanno detto in vita.

Dante riconosce un dannato: Alessio Interminelli da Lucca. Anche lui non è affatto contento di essere riconosciuto. Di lui sappiamo veramente poco, solo che era un guelfo bianco; Alessio stesse ammette quanto per tutta la vita, lui sia stato ben felice di lusingare il prossimo, ovviamente per il proprio tornaconto.

Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,
mi disse, «il viso un poco più avante,
sì che la faccia ben con l’occhio attinghe

di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l’unghie merdose,
e or s’accoscia e ora è in piedi stante.

Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse ‘Ho io grazie
grandi apo te?: ‘Anzi maravigliose!’.

E quinci sian le nostre viste sazie».

Come accaduto prima, il secondo condannato che troviamo è una figura classica, in questo caso Taide, prostituta dell’Eunuchus di Terenzio. La figura di Taide non viene condannata per lussuria, e questo ci indica che il suo grande peccato sia stato proprio l’adulazione.
Dante, che vedeva nella figura femminile il massimo della grazia e dell’eleganza, non riesce a concepire come una donna possa divenire ruffiana, proprio utilizzando il proprio corpo, e sinceramente neanche noi. Uomini o donne che siamo, utilizzare il fisico per lusingare chissà chi, ci fa tornare al discorso dell’oggettificazione.

Così come accaduto prima, troviamo sempre due peccatori: i primi sono figure contemporanee di Dante, i secondi appartengono ai Classici. I primi vengono appunto riconosciuti dal Poeta, i secondi sono indicati da Virgilio. Possiamo pensare che i peccati che facciamo quando abbiamo già intrapreso il Cammino siano più facili da vedere, mentre quelli passati non li vediamo come tali, se non affidandoci alla nostra Guida Interiore.

Appurato ciò e nauseati da quello che hanno visto, Dante e Virgilio si apprestano a entrare nella Bolgia seguente, quella dedicata ai simoniaci, di cui vi parleremo il prossimo mese.

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