venerdì 29 settembre 2023

#DivinaCommedia: Canto XXIX

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.

Oggi analizziamo il ventinovesimo canto dell’Inferno. Troviamo ancora gli strascichi delle anime che hanno seminato discordie e scismi. Ci imbatteremo anche nel sentimentalismo e nella lotta interiore di Dante alle prese con l’anima di un suo lontano cugino: Geri del Bello. Ma guidati come sempre da Virgilio, accantoneremo l’emotività che crea divisioni in noi per soffermarci su un altro terribile peccato che condanna le anime dei falsificatori.
Nella decima bolgia incontreremo così diversi alchimisti dell’epoca, come Griffolino d’Arezzo e Capocchio, amico e compagno di studi di Dante.

Sono tante le domande che ci susciterà questo canto, due tra tutte: quando abbiamo la conoscenza di una materia, quanto la mettiamo a disposizione degli altri e quanto, invece, tendiamo a erigerci, credendoci gli unici e soli ad averla? Quanto, quindi, utilizziamo la nostra sapienza per il bene e quanto per il nostro personale tornaconto?

Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.

La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebrïate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.

Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge
là giù tra l’ombre triste smozzicate?

Tu non hai fatto sì a l’altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.

E già la luna è sotto i nostri piedi;
lo tempo è poco omai che n’è concesso,
e altro è da veder che tu non vedi».

«Se tu avessi», rispuos’io appresso,
«atteso a la cagion perch’io guardava,
forse m’avresti ancor lo star dimesso».

Parte sen giva, e io retro li andava,
lo duca, già faccendo la risposta,
e soggiugnendo: «Dentro a quella cava

dov’io tenea or li occhi sì a posta,
credo ch’un spirto del mio sangue pianga
la colpa che là giù cotanto costa».

Allor disse ’l maestro: «Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello.
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;

ch’io vidi lui a piè del ponticello
mostrarti, e minacciar forte, col dito,
e udi’ ’l nominar Geri del Bello.

Tu eri allor sì del tutto impedito
sovra colui che già tenne Altaforte,
che non guardasti in là, sì fu partito».

«O duca mio, la vïolenta morte
che non li è vendicata ancor», diss’io,
«per alcun che de l’onta sia consorte,

fece lui disdegnoso; ond’el sen gio
sanza parlarmi, sì com’ïo estimo:
e in ciò m’ha el fatto a sé più pio».

Siamo nel primo pomeriggio di sabato 9 aprile 1300, tra le ore 13:00 e le ore 14:00. Dante e Virgilio devono muoversi se vogliono completare il loro viaggio, eppure il primo sembra indugiare a lungo su quella che è la nona bolgia. La sua guida lo nota e lo sprona, chiedendogli per quale motivo si stia attardando in questo modo, visto che non l’ha mai fatto lungo tutto il percorso precedente. Dante gli risponde che sta cercando lo spirito di suo cugino: Geri del Bello, che sicuramente è tra le anime appena incontrate. Virgilio gli risponde che non c’è motivo di preoccuparsi, perché lui l’ha già visto: era un’anima che, riconoscendo il Sommo Poeta, aveva cominciato a minacciarlo. In quel momento, però, Dante stava parlando con Bertran de Born e quindi non si è curato di altro. A questo punto il nostro Poeta spiega alla guida il perché Geri fosse così arrabbiato.


Geri del Bello era figlio del cugino di Alighiero II, padre di Dante. Le poche notizie che abbiamo le dobbiamo proprio grazie ai figli del Poeta: Iacopo e Pietro. Geri era un seminatore di discordie, ucciso molto probabilmente da un componente della famiglia Sacchetti in un arco temporale non ben definito ma che va dal 1280 al 1300. All’epoca era di uso comune rispondere a un omicidio del genere con la vendetta, nel caso del Bello non ancora compiuta. Pare infatti che la risposta della famiglia di Dante sia avvenuta intorno al 1310.

Possiamo quindi comprendere la resistenza di Dante nell’andare avanti: dentro di sé ha tutta una sua guerra morale. Da una parte è un uomo dei suoi tempi e sa che a un crimine del genere è più che lecito rispondere con un atto di pari valore; dall’altra è a conoscenza dell’opera Divina e che, quindi, gli esseri umani non dovrebbero più controbattere in questo modo.
Se consideriamo che fino a quarantadue anni fa circa era di uso comune ricorrere al delitto d’onore, e soprattutto noi donne portiamo ancora gli strascichi della sua cultura, viene facile considerare Dante come un luminare per il contesto storico in cui vive.
Sfogandosi con Virgilio, inoltre, riesce ad andare oltre le sue pene, camminando quasi senza accorgersene fino ad arrivare alla decima bolgia.

L’attaccamento di Dante a uno pseudo errore del passato ci fa così pensare: quanto siamo ancorati a quelli che sogno gli insegnamenti della società – o della famiglia – che reputiamo sbagliati? Possiamo essere cresciuti in un ambiente che ci vuole in un modo, anche se siamo estremamente diversi, tanto da sentirci sbagliati. Dentro di noi avviene la stessa identica lotta presente in Dante: sappiamo che non abbiamo nulla di cui vergognarci, eppure il turbamento è reale tanto e quanto la nostra convinzione di non fare nulla di orribile. Al solito, quando ci troviamo in questo limbo, dobbiamo osservare il comportamento della nostra guida: Virgilio fa notare a Dante che quando si era trovato davanti la presenza del parente non lo aveva neanche degnato di uno sguardo, tanto non accorgersi minimamente della vicinanza. Poi, quando il Poeta si sfoga con lui, lo lascia parlare senza alcun commento.

È del tutto normale sentirsi in questo stato, ma dobbiamo sempre dare retta alle emozioni durante i nostri comportamenti: se mentre viviamo la nostra vita come vogliamo stiamo tranquilli, sereni, calmi, allora è il caso di perseverare nei nostri obiettivi. Quando l’Ego si mette di mezzo facendoci dubitare se sia giusto oppure no, dobbiamo ascoltarlo, dare sfogo alle sue paturnie e continuare ad andare avanti ricordandoci quanto ci sentiamo appagati quando viviamo secondo le nostre regole.

Così parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio l’altra valle mostra,
se più lume vi fosse, tutto ad imo.

Quando noi fummo sor l’ultima chiostra
di Malebolge, sì che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra,

lamenti saettaron me diversi,
che di pietà ferrati avean li strali;
ond’io li orecchi con le man copersi.

Qual dolor fora, se de li spedali,
di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali

fossero in una fossa tutti ’nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
qual suol venir de le marcite membre.

Arrivati al bordo della decima bolgia, nonostante la poca luce, Dante ci fa una descrizione ripugnante di quanto ci spetta: i lamenti delle anime sono diversi dai precedenti, arrivando alle orecchie del Poeta come le punte di ferro che penetrano la pelle. Il dolore morale è così tanto che è costretto a tapparsi le orecchie con le mani.
Togliendo l’udito, Dante continua la descrizione utilizzando un altro senso: l’olfatto. Per farlo si serve di un’immagine a dir poco nauseante. Per rendere partecipe il lettore dell’epoca gli fa immaginare la bolgia come un’unione delle zone: Valdichiana, Maremma e Sardegna – all’epoca estremamente paludose – in piena estate, con tutti i loro ospedali per l’accoglienza dei malati (di malaria e lebbra). Ecco che arriva il terribile odore degli arti incancreniti, mischiato all’olezzo causato dall’infermità dei degenti.

Noi discendemmo in su l’ultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
e allor fu la mia vista più viva

giù ver lo fondo, la ’ve la ministra
de l’alto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra.

Non credo ch’a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,
quando fu l’aere sì pien di malizia,

che li animali, infino al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo,

si ristorar di seme di formiche;
ch’era a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche.

Qual sovra ’l ventre, e qual sovra le spalle
l’un de l’altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.

Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone.

Quando i due Poeti discendono verso la fossa, Dante può vedere meglio il comportamento delle anime riconoscendole come falsari. Il sentimento predominante è la tristezza e per descriverlo si serve del mito della pestilenza nell’isola di Egina, con tutto il popolo morente per volere di Giunone.

Alcune anime sono sdraiate a terra, senza poter fare molto, altre si appoggiano alle spalle di quelle vicine, altre ancora gattonano perché non riescono a stare ritte in piedi per il troppo dolore. Nessuna di loro, insomma, riesce a sollevare il corpo tanta è la pena inflitta.

Andiamo a vedere il perché di questo contrappasso: come vedremo dopo, le anime incontrate sono alchimisti, motivo che ci spinge a pensare sia una bolgia ricca di chi ha compiuto questo mestiere in vita. All’epoca di Dante, però, l’alchimia era considerata una vera e propria scienza, al pari della chimica dei nostri tempi. Non era il lavoro di per sé, quindi, a essere sbagliato, ma l’utilizzo che queste anime ne hanno fatto in vita.


Immaginarli in questo modo può derivare dal fatto che all’epoca molti alchimisti si ammalavano gravemente proprio perché maneggiavano metalli pericolosi, come per esempio il mercurio. È come se la punizione divina servisse per riconsiderare i loro comportamenti, ammettendo di aver inflitto dolore – seppur emotivo – con il loro sapere.
 
Io vidi due sedere a sé poggiati,
com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati;

e non vidi già mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,
né a colui che mal volontier vegghia,

come ciascun menava spesso il morso
de l’unghie sopra sé per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha più soccorso;

e sì traevan giù l’unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o d’altro pesce che più larghe l’abbia.

«O tu che con le dita ti dismaglie»,
cominciò ’l duca mio a l’un di loro,
«e che fai d’esse talvolta tanaglie,

dinne s’alcun Latino è tra costoro
che son quinc’entro, se l’unghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro».

«Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue», rispuose l’un piangendo;
«ma tu chi se’ che di noi dimandasti?».

E ’l duca disse: «I’ son un che discendo
con questo vivo giù di balzo in balzo,
e di mostrar lo ’nferno a lui intendo».

Allor si ruppe lo comun rincalzo;
e tremando ciascuno a me si volse
con altri che l’udiron di rimbalzo.


Lo sguardo di Dante si posa su due anime poggiate schiena contro schiena intente a grattarsi con gran foga le croste sulla loro pelle. Il movimento delle braccia è così violento che le unghie sembrano veri e propri artigli e il loro un lavoro è frenetico al pari di un garzone col compito di strigliare. Virgilio chiede a queste anime se c’è qualche italiano lì attorno e la risposta ha esito positivo quando un’anima risponde che loro due lo sono, ma prima vogliono sapere di più di Dante e Virgilio; il secondo risponde spiegando il loro piano che consiste nel far vedere l’Inferno a Dante, un vivo. Ogni anima lì attorno, ascoltate queste parole, sembra dimenticare il dolore che la affligge perché interrompe qualsiasi cosa stia facendo solo per ascoltare. Un piccolo appunto: dopo la prima richiesta di Virgilio, quest’ultimo la conclude con un augurio. Spera, infatti, che l’unghia utilizzata come strumento per recare un po’ di sollievo possa durare in eterno.

Fermiamoci un attimo per considerare quanto appreso da queste immagini. I dannati continuano a non pentirsi della pena, ma interrompono qualsiasi attività quando scoprono che un vivo gira per l’Inferno, salvo poi riprendere quanto stavano facendo. Questo ci fa sorridere perché è esattamente quello che accade nel nostro quotidiano: tutti abbiamo la possibilità di cambiare atteggiamento, di lavorare sui noi stessi, di cercare la redenzione dai nostri sensi di colpa e manie autopunitive, ma non lo facciamo praticamente mai. Quando ci imbattiamo in qualcuno che predica l’Amore e il Perdono guardando ai nostri peccati con compassione invece che con giudizio ne siamo sì affascinati, forse per un attimo smettiamo di seguire i nostri schemi mentali, ma poi riprendiamo come se nulla fosse davvero successo credendo, forse, di non meritarci davvero il bene.

Lo buon maestro a me tutto s’accolse,
dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»;
e io incominciai, poscia ch’ei volse:

«Se la vostra memoria non s’imboli
nel primo mondo da l’umane menti,
ma s’ella viva sotto molti soli,

ditemi chi voi siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi».

«Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena»,
rispuose l’un, «mi fé mettere al foco;
ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.

Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:
"I’ mi saprei levar per l’aere a volo";
e quei, ch’avea vaghezza e senno poco,

volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo
perch’io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l’avea per figliuolo.

Ma ne l’ultima bolgia de le diece
me per l’alchìmia che nel mondo usai
dannò Minòs, a cui fallar non lece».


Virgilio spinge Dante a parlare con quell’anima e dal racconto della sua storia scopriamo che si tratta di Griffolino d’Arezzo. Per spiegare meglio perché è all’Inferno e soprattutto in questa bolgia, andiamo a raccontare un po’ della sua vita. Attenzione, però, perché se ne sa davvero poco.     

Questo era un famoso e bravo alchimista, che lavorava per persone note del tempo, come per la cerchia del Vescovo di Siena. Il vescovo era molto legato a un ragazzo, non molto sveglio mentalmente, di nome Albero (o Alberto) da Siena. Griffolino, del tutto privo di comprensione verso le condizioni di Albero, soleva prendersi spesso gioco di lui fino a dirgli che era in grado di volare. Il ragazzo, affascinato dalla possibilità di librarsi in aria, volle a tutti i costi imparare questa abilità ma quando dopo mesi non ci fu nessun miglioramento, si accorse dell’inganno e per questo lo denunciò al “padrino” che lo condannò al rogo per eresia – forse – nel 1272.

Se la giustizia terrena condanna i reati con prove materiali, Dante ci ricorda che quella Divina conosce ogni cosa e per questo è impossibile nascondere i veri intenti. Griffolino non va con Farinata degli Uberti and co, insieme agli eretici, insomma, perché non ha commesso nessuna eresia. Si è preso gioco di un debole, ha utilizzato il suo sapere per divertimento e arricchimento personale ed è per questo che è condannato alla pena maggiore dei falsari. Certo, i primi sono puniti sepolti in arche infuocate, ma i loro lamenti sono di gran lunga inferiori a quelli di adesso. Ricordiamoci che più ci avviciniamo a Lucifero, più la condanna è dolorosa ed estrema.

E io dissi al poeta: «Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì d’assai!».

Onde l’altro lebbroso, che m’intese,
rispuose al detto mio: «Tra’ mene Stricca
che seppe far le temperate spese,

e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l’orto dove tal seme s’appicca;

e tra’ne la brigata in che disperse
Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,
e l’Abbagliato suo senno proferse.


Dante fa una battuta a Virgilio, chiedendogli se esistano persone più vanitose dei senesi – proprio per la smania e per il credere che un essere umano possa effettivamente volare – forse solo i francesi. A questo risponde, sempre con umorismo, la seconda anima ricordandogli che tra gli abitanti di Siena esistono persone ancora più vanitosi dei nostri cugini d’oltralpe e fa alcuni nomi. Troviamo citati per primi i due fratelli Salimbeni: Stricca e Niccolò.     

Ora, le notizie sono davvero poche quindi si può solo dedurre che Stricca sia in riferimento a Giovanni, fratello – appunto – di Niccolò. Comunque sia il tono con cui l’anima gli dice delle spese oculate del primo continua a essere ironico quanto quello utilizzato da Dante, tanto da diventare una vera e propria commedia. Niccolò, invece, è il primo in assoluto ad aver scoperto che il garofano sull’arrosto lo faceva divenire più gustoso, ma all’epoca questa ricetta era davvero dispendiosa.

Andiamo avanti con la menzione a una vera e propria setta dal nome “brigata spendareccia” di cui facevano parte Caccia d’Asciano e l’Abbagliato. Il primo era della ricchissima famiglia Cacciaconti; il secondo è Bartolomeo dei Folcacchieri. Entrambi da giovani avevano scialacquato tutti i loro averi, perdendo anche grandi possedimenti. Certo, alla fine il loro conto non calò poi di molto, ma sappiamo dove li avrebbe collocati Dante se fossero morti prima della primavera del 1300. Il fatto più o meno divertente è che Bartolomeo muore proprio nel 1300, ma dopo la primavera. Comunque sia nell’età adulta si è ripreso divenendo un importante politico, fino a raggiungere la carica di podestà nel 1288 (di Monteriggioni) e nel 1300 (di Monteguidi).

Ma perché sappi chi sì ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver me l’occhio,
sì che la faccia mia ben ti risponda:

sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l’alchìmia;
e te dee ricordar, se ben t’adocchio,

com’io fui di natura buona scimia».


Ora vediamo chi è la seconda anima che parla: Capocchio, famoso alchimista anche lui condannato per eresia nel 1293. Le poche notizie certe che abbiamo sono in linea con la condanna di Dante perché sembra fosse stato un imitatore e contraffattore della natura. Probabilmente, quindi, dava false cure e/o risposte alle richieste che gli venivano fatte.
Questo, però, sembra non tangere l’anima che anzi, si vanta – e in effetti pare fosse di Siena – di quanto fosse stato un gran conoscitore della natura stessa. Lo lascia intendere, sfidando quasi Dante che era suo compagno di studi.

Per potersi iscrivere alla Corporazione dei Medici e degli Speziali, obbligatoria ai tempi per poter accedere alle cariche pubbliche, lo stesso Poeta ha dovuto affrontare gli studi di alchimia, quindi probabilmente – non conosciamo la data di nascita di Capocchio – i due erano anche coetanei.

Il canto si conclude così, senza nessun accenno di commento o replica nei confronti del conoscente. Il prossimo mese saremo ancora nella bolgia dei falsari, ma molti altri personaggi sono in arrivo…

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