lunedì 6 novembre 2023

#Cinema&SerieTv: Killers of the Flower Moon e come dare il giusto punto di vista a una storia

Stati Uniti d’America fine ‘800, la popolazione di nativi americani Osage originaria dei territori tra Kansas e Missouri, a causa di faide con gli statunitensi che ne occupano i territori e con gli altri gruppi di nativi, si ritrova a dover obbligatoriamente acquistare dei nuovi territori in Oklahoma con l’accordo che i coloni americani non possano stanziare all’interno della riserva. I territori rocciosi della riserva ritenuti di scarso valore dallo Stato americano vengono venduti a caro prezzo.

Stati Uniti d’America anni ‘20, in quegli stessi terreni gli Osage trovano giacimenti di petrolio divenendo di colpo ricchissimi. Iniziano l’ostentazione e i primi matrimoni misti tra nativi e statunitensi, d’un tratto però gli Osage iniziano a essere ammazzati l’uno dopo l’altro senza che la polizia intervenga in modo adeguato.
 
In questo scenario si colloca l’ultimo film di Martin Scorsese, maestro del cinema americano moderno fin dagli anni ‘70, che vede tra i suoi protagonisti una bravissima Lily Gladstone e il primo incontro in una pellicola del regista dei suoi due attori feticci Leonardo Di Caprio e Robert De Niro. Seppur basato sul libro “Gli assassini della terra rossa” il film ne capovolge il punto di vista, se infatti il saggio di David Grann si basa principalmente sulle indagini della neonata FBI, il film mette queste quasi ai margini focalizzando tutta l’attenzione all’interno dei territori Osage sviscerando causa e effetti degli omicidi dal punto di vista dei mandanti.

La prima sensazione che colpisce lo spettatore è quella di star guardando un film crudo, spietato, un film che ti fa sentire sporco e in colpa, pur non mettendo quasi mai la violenza come protagonista in scena. E questa sensazione è destinata a crescere fino alla fine rendendo il tutto sempre più cupo. Anche le scene di quotidiana spensieratezza del primo atto nascondono tutto il marciume della vicenda, i nativi sono truffati, incapaci di spendere il proprio denaro, messi sotto la tutela di coloni bianchi che ne devono gestire e autorizzare le finanze. E poi arriva l’elefante nella stanza: le morti, presentate di getto, quasi di fretta ma ciò le rende ancora più forti, scioccanti. E l’effetto è amplificato proprio da quel capovolgimento sopracitato, a presentarle infatti non è la voce accalorata dalla mansione di un agente di polizia americano, né quella d’esperienza, ormai rodata, di un sacerdote o di un giudice, ma è proprio quella fredda, senza speranza, disillusa di una candidata vittima, della nativa interpretata da Lily Gladstone, Mollie.

Mollie si staglia nello schermo come una figura tutta d’un pezzo ma duale in ogni suo aspetto, enigmatica ma sincera, dolce ma severa, che è affascinata dal “cowboy” americano (Di Caprio), ma che rimane ancorata alle proprie tradizioni. Attraverso di lei si coglie il dolore Osage che altrimenti sarebbe stato solo un opaco pretesto per presentare il machiavellico enigma che fa arrovellare le menti e trionfare il risolutore, l’eroe americano. Ma non in tutte le storie c’è un eroe americano, in alcune non c’è nemmeno l’eroe, ma solo vittime, carnefici e sopravvissuti. Questo è il caso di “Killer of the Flower Moon” in cui i “killers” sono proprio gli americani. Qui entrano in gioco William Hale (Robert De Niro) ed Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio) rispettivamente burattinaio e burattino, uno senza scrupoli l’altro senza spina dorsale. Ed è proprio nel personaggio di Di Caprio che si coglie tutto lo spirito dell’opera, il racconto di una cattiveria fine a se stessa senza nemmeno il grande scopo del denaro o del potere ma perché “se è così che si deve fare allora lo faccio”. Se il Don Abbondio di Manzoni era un “vaso di terracotta tra i molti vasi di ferro”, l’Ernest Burkhart di Scorsese non arriva nemmeno a essere un vaso, ma tutt’al più un ammasso di creta che si fa modellare da chiunque eserciti un minimo di pressione. È lo specchio della non-scelta, della banalità del male di “arendtiana” memoria, che fa apparire chi sta in alto come un abile e intelligente manovratore che coglie l’occasione di far soldi e chi sta in basso come un pupazzo che pur potendosi facilmente ribellare non lo fa mai.

In questo senso le rapide tre ore e ventisei di “Killers of the Flower Moon” vanno a costruire un ambiente ben preciso, un ambiente che proprio come una riserva indiana è creato, finto e non dovrebbe essere lì, dove tutto è calcolato con un fine, fatto di accordi a tavolino e di strette di mano fasulle. Un ambiente in cui ogni cosa è sbagliata ma più che indagare e fare giustizia, rendere il tutto una storia vera e tangibile, una vicenda da ricordare come atroce nella memoria collettiva la si rende una bella storia da raccontare ai microfoni, persa nel tempo e incastonata nella finzione.

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