venerdì 24 novembre 2023

#DivinaCommedia: Canto XXXI

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.


Oggi analizziamo il trentunesimo canto dell’Inferno. Qui troviamo i giganti, simbolismo di superbia e arroganza verso Dio, ma soprattutto passaggio tra l’ultima zona di fuoco e quella zona di ghiaccio che vedremo nel Cocito. Con la loro forza estrema ben utilizzata in vita, il contrappasso che li attende è ricco di silenzio, immobilità e incomprensione.
Troveremo in particolare Nembrot, Fialte e Anteo, con le loro storie provenienti dalla Bibbia e dalla mitologia classica.

Più che domande, questo canto ha suscitato in noi riflessioni. Stando all’Inferno già da un po’, non è di certo la prima volta che incappiamo nella superbia e nell’ira, ma qui le vediamo come matrici e uniche forze che spingono le anime ad agire. Constatiamo, quindi, quanto sia davvero inutile procedere nella vita attraverso di loro, soprattutto perché le anime più sagge – rappresentate in questo caso da Virgilio – altro non fanno che deriderci.

Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.  
 
Una medesma lingua pria mi morse,
sì che mi tinse l’una e l’altra guancia,
e poi la medicina mi riporse;

così od’io che solea far la lancia
d’Achille e del suo padre esser cagione
prima di trista e poi di buona mancia.

Nel canto precedente abbiamo visto Virgilio sgridare in modo molto severo Dante, adesso, però, lo stesso conforta il turista vivente, proprio come fa la lancia di Achille. Per comprendere meglio questo passo è bene spiegare brevemente il significato.

Peleo, padre di Achille, aveva una lancia il cui primo colpo feriva, mentre il secondo guariva. Questo è proprio il compito di una guida spirituale, essendo tutti noi ben consapevoli che un suo appunto, critica o giudizio non viene mai per farci solo del male, ma proprio per ricucire ferite sanguinanti al nostro interno. Seguendo lo stesso concetto, anche noi, quando siamo nel pieno di un cammino spirituale, dovremmo cominciare a dire la verità a chi abbiamo davanti non per fargli del male, bensì per dargli modo di crescere.

Attenzione, però, al raccontarsela: bisogna sempre capire chi vuole la verità e chi invece no. Non possiamo peccare di superbia nel dirci: “Problema suo se non mi accetta in modo sincero”, perché un conto è agire seguendo l’esempio della lancia di Achille, un altro è rendersi una comune lancia che dà solo morte o dolore.

Noi demmo il dosso al misero vallone
su per la ripa che ’l cinge dintorno,
attraversando sanza alcun sermone.

Dopo quanto accaduto, i due continuano a camminare, in assoluto silenzio. Ecco, sappiamo che il silenzio può suscitare disagio, ma è estremamente necessario per ponderare meglio ogni situazione.     
Tutti ci siamo sentiti dire, almeno una volta: “Prima pensa, poi parla” o “Conta fino a dieci prima di dire o fare qualcosa”. È sicuramente un ottimo metodo per allenare la riflessività, invece che mandare sempre avanti l’impulso.

Allo stesso modo, dopo lezioni importanti come la sgridata di Virgilio, Dante ha la saggia accortezza di rimanere in silenzio, senza cambiare discorso o parlare del più del meno. Se si facesse guidare dallEgo, negando l’appunto del suo Maestro, si toglierebbe la possibilità di riflessione e crescita interiore.

Quiv’era men che notte e men che giorno,
sì che ’l viso m’andava innanzi poco;
ma io senti’ sonare un alto corno,

tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.

Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta,
non sonò sì terribilmente Orlando.

Dante descrive la luce del nuovo luogo come quella crepuscolare. Notiamo come il buio più intenso stia mano mano cedendo il passo alla luce, anche se adesso è ancora molto fioca.

Non facciamo in tempo a riflettere su questo che improvvisamente si leva un suono fragoroso di corno, che il Sommo Poeta ci dice avrebbe fatto impallidire qualsiasi altro, anche quello del corno di Orlando, presente nel poema “Chanson de Roland” (metà XI secolo) che narra la disfatta di Carlo Magno nella battaglia di Roncisvalle contro i Saraceni.

Poco portäi in là volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;
ond’io: «Maestro, di’, che terra è questa?».

Ed elli a me: «Però che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,
avvien che poi nel maginare abborri.

Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
quanto ’l senso s’inganna di lontano;
però alquanto più te stesso pungi».

Poi caramente mi prese per mano,
e disse: «Pria che noi siamo più avanti,
acciò che ’l fatto men ti paia strano,

sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
da l’umbilico in giuso tutti quanti».

Così Dante, impaurito da quanto sta accadendo, vuole più spiegazioni da parte di Virgilio. Dopo aver visto parecchie torri in lontananza, a ricordare le protezioni poste davanti l’ingresso delle città, il Poeta vivente chiede all’anima del Poeta morto in quale terra si trovino.

Virgilio li fa notare che, probabilmente a causa del lungo periodo passato al buio, quelle che vede non sono torri, bensì giganti. Gli comunica già, prima che lo veda con i suoi occhi, che tutti loro sono disposti lungo la parete del pozzo, infissi dall’ombelico in giù in modo che si possano vedere solo i loro busti e volti.

Come ripetiamo sempre, il demone non dice mai il suo vero nome. Se sapessimo fin da subito quale peccato ci sta guidando, noi avremmo modo di lavorarci in breve tempo e di conseguenza il maligno avrebbe vita veramente breve in noi.
Così c’è da prestare davvero molta attenzione quando diamo un nome o una spiegazione ai nostri comportamenti in maniera spontanea o istantanea.     
Il nostro cammino nella Divina Commedia dura da più di due anni, e Dante ci ha insegnato che più andiamo avanti, più è possibile incappare in questi tipi di errori. Riconosciamo la superbia, sappiamo cosa è, l’abbiamo toccata con mano con tutte le anime infernali precedenti, eppure non c’è mai stato un vero e proprio girone dedicato a loro, cosa che troveremo solo nel Purgatorio, quando stiamo già in fase di purificazione.

Allo stesso modo, diamo attributi ai nostri atteggiamenti, almeno finché non ci imbattiamo davvero in loro, per scoprire che quelli passati erano frutto di ben altro.
Ecco perché è praticamente impossibile affrontare un cammino spirituale senza una guida preparata, come è davvero impossibile avere una terapia psicologica senza un professionista, nonostante qualsiasi tesi abbiano da dare i tiktoker dei “cinque o più caratteristiche del problema psicologico del momento”.

Come quando la nebbia si dissipa,
lo sguardo a poco a poco raffigura
ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa,

così forando l’aura grossa e scura,
più e più appressando ver’ la sponda,
fuggiemi errore e crescémi paura;

però che, come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
così la proda che ’l pozzo circonda

torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.

E io scorgeva già d’alcun la faccia,
le spalle e ’l petto e del ventre gran parte,
e per le coste giù ambo le braccia.

Natura certo, quando lasciò l’arte
di sì fatti animali, assai fé bene
per tòrre tali essecutori a Marte.

E s’ella d’elefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente,
più giusta e più discreta la ne tene;

ché dove l’argomento de la mente
s’aggiugne al mal volere e a la possa,
nessun riparo vi può far la gente.

La faccia sua mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran l’altre ossa;

sì che la ripa, ch’era perizoma
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
di sovra, che di giugnere a la chioma

tre Frison s’averien dato mal vanto;
però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi
dal loco in giù dov’omo affibbia ’l manto.


In questa più che accurata descrizione vediamo l’enorme stazza dei giganti e come questi sono disposti lungo tutto il perimetro del pozzo.
Dante li paragona alle torri del castello di Monteriggioni, ancora oggi ammirabile nella provincia di Siena.     
Avvicinandosi a loro comincia a elucubrare sulla saggezza della natura, la stessa che ha smesso di produrre essere così mastodontici, nonostante continui a generare balene ed elefanti. Quando la forza bruta è accompagnata dal giusto intelletto, gli esseri umani sono impossibilitati a difendersi ed è per questo che la Natura ha scelto di far vivere gli umani.

Il volto del gigante è grande quanto la Pigna a San Pietro – oggi situata all’interno dei musei vaticani – che misura circa quattro metri e mezzo. Tutta la sua interezza (almeno dal volto all’ombelico), secondo il Poeta, arriva a circa sette metri.

Di certo non può stupirci la reazione di Dante, quando ringrazia per il fatto che certi esseri non vivono più sul nostro pianeta. Possiamo vederlo di certo nel senso che dopotutto non esistono davvero esseri umani che mettono solo la superbia e l’ira nelle loro azioni, perché altrimenti questi sarebbero oltremodo fermati, prima o poi.

Dante non poteva immaginare ai tempi che l’umanità sarebbe andata incontro a certi aiutini, quindi è un nostro personale azzardo scrivere che le armi di distruzione di massa, soprattutto dall’atomica in poi, possono essere certo paragonate ai giganti, unendo forza brutale e intelletto umano. Ogni volta, quindi, che l’umanità incappa in guerre ed è dedita alla costruzione di armi sempre più potenziate, sta ricreando quello che la natura non ha mai voluto vivesse.

«Raphél maì amèche zabì almi»,
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi.

E ’l duca mio ver lui: «Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand’ira o altra passïon ti tocca!

Cércati al collo, e troverai la soga
che ’l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che ’l gran petto ti doga».

Poi disse a me: «Elli stessi s’accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s’usa.

Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto».


Il gigante urla qualcosa di incomprensibile. Qui è bene dirvi che diversi studiosi hanno dato la loro traduzione, ma noi pensiamo che non sia il caso di riportarla, proprio per quello che dirà subito dopo Virgilio.

Quest’ultimo, infatti, parla con il mostro come se fosse un bambino: lo canzona, quasi lo deride chiamandolo sciocco. Gli dice di sfogarsi con il corno quando si sente posseduto dall’ira, proprio come un qualsiasi genitore direbbe ancora oggi al bambino di intrattenersi con un gioco invece di fare i capricci.

Poi a Dante gli spiega che non è il caso di perdere tempo con lui, perché altri non è che Nembrot, re di Babilonia – probabilmente un’errata traduzione dei tempi lo ha voluto gigante – che ha dato il via alla costruzione della torre di Babele. Proprio per questo parla una lingua sconosciuta e di conseguenza non può comprendere quanto viene detto dagli altri.

Vi sarà sicuramente capitato di conoscere persone superbe e irose, non accade forse lo stesso? È inutile perdere tempo con loro, spiegando chissà cosa e chissà per quanto tempo: non capiranno mai, proprio perché non vorranno sentire ragioni e di conseguenza comprendere il vostro punto di vista.
Il comportamento più saggio, come ci insegna Virgilio, è quello di ignorarli, magari distraendoli con altro, e andare oltre.

Facemmo adunque più lungo vïaggio,
vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro,
trovammo l’altro assai più fero e maggio.

A cigner lui qual che fosse ’l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi l’altro e dietro il braccio destro

d’una catena che ’l tenea avvinto
dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto
si ravvolgëa infino al giro quinto.

«Questo superbo volle esser esperto
di sua potenza contra ’l sommo Giove»,
disse ’l mio duca, «ond’elli ha cotal merto.

Fïalte ha nome, e fece le gran prove
quando i giganti fer paura a’ dèi;
le braccia ch’el menò, già mai non move».


Dante e Virgilio si allontanano da Nembrot e vanno verso un altro gigante: Fialte. Questo era il figlio di Nettuno e Ifimedia, ed è qui punito perché assieme al fratello gemello Oto, grazie alle loro stature, ha tentato la scalata verso il cielo, con l
’obiettivo di arrivare a Giove.

Troviamo il secondo gigante molto più feroce e immenso del primo, ma fortunatamente la sua forza bruta è ben tenuta a bada: Fialte ha entrambe le braccia legate, così da essere condannato all’immobilità eterna. Può giusto scuotere il busto, e anche se provoca un fortissimo terremoto, per il gigante non è praticamente niente.

Se Nembrot paga la superbia con la stupidità – ricordiamo che viene trattato al pari di un bambino che non può far altro che suonare il corno – Fialte lo fa rimanendo inerme. Questo può di certo farci notare come, prima o poi, pagheremo davvero a caro prezzo la superbia e l’ira.

Essere confinati al ruolo di stupidi è certamente brutto, ma cosa dire dell’immobilità? Quante volte abbiamo avuto la sensazione di non saperci muovere? Di non riuscire ad andare avanti nella vita? Quante volte ci siamo sentiti come se nulla cambiasse davvero, nonostante la nostra voglia? E se quei momenti fossero il sussulto della vita che ci sprona al movimento? All’abbandonare quello che pensiamo di saper fare alla perfezione per andare verso l’ignoto, che ci mette insicurezza? Se è proprio quello il momento in cui dobbiamo imparare l’umiltà? Il riconoscere a noi stessi che non siamo bravi, e che anzi, c’è molto da imparare prima di ricevere la trasformazione tanto agognata? Ma come possiamo anche solo immaginare di imparare se non diciamo a noi stessi che non sappiamo nulla?

E io a lui: «S’esser puote, io vorrei
che de lo smisurato Brïareo
esperïenza avesser li occhi miei».

Ond’ei rispuose: «Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed è disciolto,
che ne porrà nel fondo d’ogne reo.

Quel che tu vuo’ veder, più là è molto,
ed è legato e fatto come questo,
salvo che più feroce par nel volto».

Non fu tremoto già tanto rubesto,
che scotesse una torre così forte,
come Fïalte a scuotersi fu presto.

Allor temett’io più che mai la morte,
e non v’era mestier più che la dotta,
s’io non avessi viste le ritorte.


Le nostre domande vengono interrotte da Dante, che a questo punto si comporta lui stesso da bambino. Chiede a Virgilio di vedere Briareo, il gigante figlio di Urano e Gea che prese parte alla battaglia dei Titani contro Giove.
Proprio come si fa con i bambini, Virgilio gli risponde che adesso non c’è tempo, in quanto è molto lontano dal posto in cui si trovano e che alla fine Briareo non si discosta molto da Fialte: anch’esso è incatenato ed è della stessa stazza, anche se all’apparenza può sembrare più brutale.

In quel momento Fialte comincia a scuotere il busto e dà il via al terremoto che avrebbe fatto morire di paura Dante, se solo non fosse stato certo dell’impossibilità di muoversi e quindi di nuocerlo.

Ora facciamo caso a quanto in questo canto il Sommo Poeta giochi sui sentimenti di paura e consolazione. A partire dalla lancia di Achille, alla descrizione spaventosa dei giganti ma che poi fa notare totalmente statici. Troveremo più avanti anche il momento in cui Anteo trasporterà Dante e Virgilio sul fondo dell’Inferno, a ricordare molto il volo fatto dai due con Gerione.

Riconfermiamo quanto detto prima: stiamo sul finire dell’Inferno, i giganti rappresentano proprio il i tre peccati più gravi (superbia, ira e poi vedremo l’orgoglio) e allo stesso tempo sono anche i custodi del fondo, dove troveremo Lucifero.
È bene dare queste piccole anticipazioni ora, proprio perché bisogna vedere con i propri occhi quanto i tre peccati costituiscano la base di ogni altro. Sono loro tre a spingerci verso le acque turbolente, loro a dare un senso di negativo alla nostra vita.

Una volta domati, possiamo vedere negli occhi il grande nemico. Non è ancora il momento, però, per rivelare qualcosa di lui.

Noi procedemmo più avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
sanza la testa, uscia fuor de la grotta.

«O tu che ne la fortunata valle
che fece Scipïon di gloria reda,
quand’Anibàl co’ suoi diede le spalle,

recasti già mille leon per preda,
e che, se fossi stato a l’alta guerra
de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda

ch’avrebber vinto i figli de la terra;
mettine giù, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra.

Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama;
però ti china, e non torcer lo grifo.

Ancor ti può nel mondo render fama,
ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta
se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama».

Così disse ’l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese ’l duca mio,
ond’Ercule sentì già grande stretta.

Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: «Fatti qua, sì ch’io ti prenda»;
poi fece sì ch’un fascio era elli e io.


Giunti da Anteo (altro figlio di Poseidone e Gea), Virgilio comincia a parlargli in modo seducente, direttamente al suo Ego elogiandolo con i ricordi delle sue gesta.
Il discorso della guida ricorda totalmente l’espressione latina “captatio benevolentiae” (trad. “accattivarsi la simpatia”) ed è uno dei tanti modi in cui una persona dà dimostrazione della sua ottima capacità oratoria, tanto da essere definita come pilastro di tale talento da Cicerone. Insomma: se si vuole ottenere qualcosa, si può accattivare l’interlocutore raggirandolo con numerosi elogi. Detto così può sembrare peccato, la realtà è che bisogna saperlo fare.

Ricordiamoci che all’Inferno le anime sono sì furbe, ma si intontiscono totalmente quando vengono punti nell’orgoglio. Anteo può muoversi perché non ha preso parte alla battaglia dei suoi fratelli contro Giove – Virgilio gli fa addirittura notare che se ci fosse stato, l’avrebbero vinta – eppure il suo orgoglio è così predominante nel carattere che basta a renderlo superbo.   
Se si crede così importante, così bravo, così forte... non si sta forse mettendo a paragone di Dio?


Accetta, infatti, di trasportare i due dall’altra parte solo per la sua ricompensa: essere ricordato nel mondo dei vivi per le sue incredibili gesta. Così prende prima Virgilio, il quale rassicura Dante: una volta salito lo terrà stretto in un abbraccio.

Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto ’l chinato, quando un nuvol vada
sovr’essa sì, ched ella incontro penda;

tal parve Antëo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.

Ma lievemente al fondo che divora
Lucifero con Giuda, ci sposò;
né sì chinato, lì fece dimora,

e come albero in nave si levò.


La posa di Anteo ricorda a Dante la torre della Garisenda, situata a Bologna. Questa è leggermente pendente da un lato e quando una nuvola ci passa sopra, dà l’illusione ottica che stia cadendo al suolo.
Ecco quindi che Dante è timoroso del gigante, tanto che sente il bisogno di andare via e proseguire su un altro sentiero. Ma fortunatamente si fida di Virgilio abbastanza da seguirlo.

Quando arrivano a destinazione, Alteo li posa dolcemente e rimane a lungo chinato, forse per dare modo ai due di cambiare idea visto che andare verso Lucifero non è di certo una passeggiata. Quando il gigante torna eretto, Dante lo paragona all’albero di una nave.

Vogliamo, ora, prestare attenzione ai sentimenti di Dante. Ha paura, vorrebbe scappare, andare via, ma si fida abbastanza di Virgilio da seguirlo ancora una volta. Sa che sta a un passo dalla fine, ma sa anche che adesso arriva la parte più terribile e alla fine la fede è tutto ciò di cui ha bisogno.

Dante è abbastanza maturo da capire che la Guida non è mai contro di lui, ma sempre ed esclusivamente in suo favore. Possiamo dire lo stesso quando un amico fidato – o proprio una guida – ci indirizzano verso una strada? Chiediamoci sinceramente cosa avremmo fatto se fossimo stati al posto di Dante...

Le domande suscitate sono così importanti che non sappiamo se in un mese riusciremo a ponderarle come si deve anche perché nel prossimo appuntamento arriviamo al Cocito, e anche lì ci sarà molto da dire.

Attenzione a voi, traditori!

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