venerdì 31 luglio 2020

#Libri: Kitchen

Quando un autore pubblica il suo primo romanzo, spesso risultata – per ovvie ragioni – acerbo dal punto di vista stilistico. Capita anche, però, che il medesimo libro sia anche il giusto trampolino di lancio per un talento universalmente conosciuto. La recensione di oggi si occupa di un libro pubblicato nel 2001, scritto da Banana Yoshimoto: Kitchen.

Riconosciuto come caso letterario, in "Kitchen" ci troviamo in Giappone e seguiamo lo triste storia di Mikage Sakurai che all’improvviso perde l’unica persona che le era rimasta della sua famiglia: la nonna. Per un periodo si ritrova a vivere (meglio dire a “non vivere”) nell’unico luogo della casa che la fa sentire protetta, la cucina. Dopo il funerale della defunta, un compagno di scuola e sua madre la invitano a stare da loro e lei, per sdebitarsi, si dedica alla preparazione dei pasti. Trovandosi in un ambiente confortevole e potendo dar sfogo alla sua originalità culinaria, Mikage riprende a vivere.
I romanzi della Yoshimoto trattano sempre temi importanti e questa volta i concetti fondamentali sono due: quello della morte e quello della famiglia.
La morte è una costante nel romanzo, come nella vita. Mikage perde i genitori in tenera età e poi, pian piano, vengono a mancare anche i nonni. Non avendo più nessuno col suo sangue, la ragazza si rende conto di essere libera da tutto e tutti, ma ciò la spaventa parecchio perché per la prima volta tocca con mano la solitudine. Vegeta nella sua tristezza, la morte sembra averla svuotata completamente di tutto. 
Cosa le resta, quindi, se non se stessa? 
Anche Yuichi Tanabe, il suo compagno di scuola, vive in compagnia della morte, ma la famiglia si reinventa e, nella disperazione, ci si rende conto che essa permette di capire cosa valga veramente nella vita e quale sia la gioia vera. Banana Yoshimoto, nella sua scrittura quasi ingenua e delicata, offre uno spiraglio di luce: la morte di un caro non ferma il tempo, la vita continua a scorrere e possiamo trovare la forza di continuare a vivere, così come fanno Mikage e Yuichi.

"Ognuno di noi pensa di avere molte strade e di poter scegliere da sé. Ma forse sarebbe più esatto dire che sogna il momento di scegliere. Anche per me è stato così. Ma ora lo so. Lo so con tanta chiarezza da portlo mettere in parole. La strada è sempre decisa, non però in senso fatalistico. Sono il nostro continuo respirare, gli sguardi, i giorni che si succedono a deciderla naturalmente."

L’altro elemento centrale, che dà anche il titolo al romanzo, è quello della cucina. In questa stanza, in cui si crea e si conversa felicemente, vediamo la metafora della famiglia. Svincolata da ogni legame, Mikage passa il suo tempo ai fornelli e lo stesso fa a casa di Yuichi e di sua madre Eriko. La famiglia diventa sia una invenzione che una ridefinizione: la giovane sceglie di eleggere i Tanabe come a sua famiglia ed Eriko, che una volta era un uomo, affronta il cambio di sesso e diventa sia padre che madre di Yuichi. La cucina diventa arte, una risorsa in cui tutti si riuniscono in un luogo per condividere. Gli ingredienti sempre usati diventano sinonimo di “passato”, e l’unirli in una pentola “futuro”.

"Stando in piedi, al centro di una cucina tutto ricomincia da capo e qualcosa ritorna."

Nella transessualità di Eriko, lo stesso concetto di ruolo maschile e di ruolo femminile viene meno. In questo romanzo vediamo lo spaccato del Giappone, fondato su una contrapposizione marcata tra i sessi, ma anche il crollo insieme al concetto di virilità maschile e di debolezza femminile.
Lo stile della Yoshimoto è semplice, lineare, una combinazione di ingenuità e sicurezza, che le permette di affrontare temi forti come quello della morte e della solitudine. I suoi romanzi non risultano mai banali e, anche nella comicità, il velo di tristezza non svanisce mai. I colpi di scena, come la morte, non diventano mai melodrammatiche, mai melensi, ma come motore che spinge i personaggi a reagire in maniera diversa. Malgrado i pretesti di trama siano semplici, il libro (di neanche 90 pagine) è tutt’altro che scontato. La Yoshimoto ha un linguaggio fresco, originale e offre all’Occidente uno spaccato della vita in Giappone, in un crescendo di tragicomica ambiguità.

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