giovedì 21 luglio 2022

#Arte: Lo squalo di Hirst

“La morte che ha già succhiato il miele del tuo respiro, nulla ha potuto sulla tua bellezza.”

Così scriveva Shakespeare, facendo pronunciare queste parole al suo Romeo, che fissava il corpo apparentemente esanime della sua Giulietta nella celeberrima opera teatrale. La morte ha sempre avuto un certo fascino sugli artisti, il più delle volte concentrati sull’attimo stesso prima di esalare l’ultimo respiro o anche il momento dello stesso. Un momento cristallizzato, indipendente da ciò che può esserci dopo. Ed è proprio questa sorta di istantanea che costituisce uno dei significati dell’opera di Damien Hirst: “L’impossibilità fisica della morte nella mente di un essere vivente” (“The physical impossibility of death in the mind of someone living”).

È il 1991 quando Damien Hirst, artista britannico intorno a cui è nato il movimento degli Young British Artists, realizza la sua opera che diviene iconica per l’arte inglese del decennio: “The physical impossibility of death in the mind of someone living”. Si tratta di uno squalo tigre di quattro metri (imbalsamato), immerso in una vasca di soluzione formaldeide. L’imprenditore iracheno Charles Saartchi nel 1991 si offre di pagare per avere una qualsiasi opera di Hirst. L’autore, così, ha un’idea: ha bisogno di un animale grande, enorme, al punto che possa dare l’idea di essere divorati senza problemi. Pensa quindi allo squalo tigre, che viene individuato e catturato da un pescatore a largo di Hervey Bay, nel Queensland (Australia). Solo l’animale costa seimila dollari, tra la cattura (quattromila), imballaggio e spedizione (duemila). L’opera viene venduta per cinquantamila dollari, tanto che il The Sun scrive sul suo giornale scandalistico: “£50.000 for fish without chips”.

Inizialmente l’animale si era conservato male, il che andava incontro al deterioramento, così venne sostituito nel 2005 con un secondo squalo, catturato nella medesima area del primo. Questo portò a un dilemma filosofico riguardo l’integrità dell’opera: cambiare lo squalo equivale a parlare della medesima opera d’arte? Ricorda un po’ lo stesso concetto di “Comedian” di Cattelan. A questa domanda, Hirst rispose asserendo che artisti e conservatori hanno opinioni contrastanti su quello che realmente conta, se l’opera in sé o l’idea originale, aggiungendo che per lui importante era l’intenzione. Si trattava, in sostanza, dello stesso pezzo. Ma perché questo squalo è così importante?

La produzione di Hirst si basa sul senso dell’esistenza, sul suo significato ultimo, unito al concetto di morte: vuole esorcizza la paura servendosi di tecniche di medicina, come la soluzione in cui lo squalo è immerso. In qualche modo, c’è un ritorno alla materia: quando ci troviamo davanti a questa gigantesca vasca e ci rapportiamo al predatore, non possiamo non fermarci a osservare. È una creatura feroce, bellissima, che potrebbe divorare lo spettatore senza sforzo, ma la sua vita è cristallizzata in quell’attimo, immobile. Malgrado impagliato, l’animale sembra sospeso in un limbo, potrebbe girarsi e attaccare, tanto che la vetrina appare improvvisamente fragile, esattamente come la nostra esistenza. Da una parte c’è questa sorta di fascinazione del macabro e della caducità della vita, ma di contro non può non aprirsi l’interrogatorio sulla crudeltà umana verso il mondo animale. Lo squalo è stato strappato dal suo ambiente, diventando strumento d’arte. Non solo, anche a causa della sua mala conservazione, il corpo stava andando incontro al deterioramento, come se fosse in procinto di sparire nella soluzione in cui è immerso.

L’intento dell’autore è quello di spaventare lo spettatore: la paura che questa opera produce delinea bene il titolo, quindi l’incapacità di razionalizzare la morte, di trovarcisi faccia a faccia con essa. Vediamo lo squalo morto, imbalsamato, ma questo genera in noi angoscia. Eppure è immerso in quella che sembra acqua, quindi potrebbe apparire anche “vivo”.

Il genio di Hirst si è spostato anche nel campo degli NFT: ha dato vita infatti a “The Currency”, la sua collezione composta da diecimila produzioni, che corrispondono ad altrettante opere d’arte uniche. Solo che nel suo caso, c’è qualcosa di davvero particolare: il suo progetto è basato sul fatto che entro un anno, l’acquirente deve scegliere se tenere l’NFT o il lavoro fisico. Nel caso in cui si prediliga il “token”, l’opera fisica viene bruciata, nell’altro, invece, si perdono i diritti sul prodotto digitale. Questo apre, quindi, sul valore dell’arte: quale vale di più?

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