sabato 27 maggio 2023

#DivinaCommedia: Canto XXV

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.

Oggi analizziamo il venticinquesimo canto dell’Inferno e ci concentriamo maggiormente sulle immagini che Dante ha saputo rendere veritiere con immensa maestria. Arrivati a questo punto, infatti, per noi è fondamentale vedere il più possibile con gli occhi della mente, facendo in modo che le terzine del Poeta inebrino tutti i nostri cinque sensi.

Al solito vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su se stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.

Per chi segue assiduamente la rubrica tutto quello che verrà detto può sembrare una ripetizione, ma crediamo che bisogna dare retta ai nostri avi quando dicevano che repetita iuvant; nel campo spirituale, poi, questo detto vale molto di più. 

 Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!».

Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch’una li s’avvolse allora al collo,
come dicesse ‘Non vo’ che più diche’;

e un’altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.

Dopo la profezia di Vanni Fucci (potete riguardare il canto precedente), il dannato bestemmia Dio sia con la parola, che con un gesto del tutto volgare. A ciò due serpi, per non volere sentire altro, si avvinghiano sia al collo che alle braccia dell’anima, così da non farlo procedere con altro.

Spesso ci dimentichiamo che pur stando all’Inferno si compie comunque la volontà di Dio e tutti i presenti – demoni compresi – sono lì proprio per Suo stesso desiderio.
Può sembrare pazzesco, e di sicuro lo vedremo più avanti, ma Dante comincia proprio a farci rendere conto di ciò con un verso in particolare: “Da indi in qua mi fuor le serpi amiche”. Quell’“amiche” vuole proprio intendere che le serpi sono le sue alleate, e certo, può sembrare forse ovvio, ma questo non vuol dire proprio che sono le alleate anche di Dio?

Nel canto precedente, infatti, vi abbiamo accennato al significato esoterico del serpente: è sì simbolo di inganno e maldicenza ma anche di rinnovamento, cambiamento e crescita spirituale. Possiamo, quindi, vedere il serpente in due modi: o come il nostro più grande tentatore, un portatore di male, o come un maestro che ci allena al cambiare.

Ora scriveremo qualcosa che forse può far storcere il naso ai sapienti e ai dotti – ricordatevi che Dante stesso dice di abbandonare la ragione prima di intraprendere questo cammino – quindi assimilate tutto con molta calma: proprio perché stiamo andando verso la fine dell’Inferno incontreremo i peccati più subdoli, i peggiori, quelli che più indignano. Ma le anime che li incarnano sono anche le stesse che più sono vicine alla purificazione.
Certo, i saccenti ci diranno che non è così, che il Purgatorio sta da tutt’altra parte rispetto ai gironi in cui ci troviamo. Certo, ma non possiamo evadere dal nostro inferno finché non lo viviamo tutto, appieno. Non possiamo risalire finché non tocchiamo il fondo. Non possiamo, quindi, toglierci quello strato di ego finché non ci uniamo del tutto a lui.

E proprio di questo parla il canto, ma continuiamo…

Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
d’incentrarti sì che più non duri,
poi che ‘n mal fare il seme tuo avanzi?

Per tutt’i cerchi de lo ‘nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.

Il rancore di Dante in questo canto fa spazio alla città di Pistoia, da lui considerata patria di superbi come Vanni Fucci. Cita nuovamente Capaneo: il titano “protettore” dei superbi e degli orgogliosi che abbiamo trovato nel XIV canto.

Quando diciamo che nella Divina Commedia nulla accade per caso, proprio come nella vita, lo vediamo anche da queste sottigliezze: Dante ci ricorda – proprio perché repitita iuvant – che superbia e orgoglio vanno di pari passo e che entrambi trovano la loro apoteosi quando ci comportiamo esattamente come i ladri.

Ora, attenzione: non dobbiamo solo prendere alla lettera le parole di Dante. Certo, rubare è reato e per tanto è un atto punito anche dalla giustizia terrestre, ma rubare non è solo l’atto di togliere un bene materiale a qualcun altro. Vediamolo anche dal punto di vista spirituale.

Quand’è che togliamo la possibilità di parlare a qualcuno? Quand’è che, spinti da orgoglio e superbia non ascoltiamo le parole di chi abbiamo davanti? Quand’è che togliamo la libertà all’altro (spoiler: pensiamo per lo più alle nostre relazioni)... Ed ecco che cominciamo a vederci un po’ più ladri, anche se non siamo di Pistoia.

El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: «Ov’è, ov’è l’acerbo?».

Maremma non cred’io che tante n’abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia.

Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s’intoppa.

Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
che, sotto ‘l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco.

Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch’elli ebbe a vicino;

onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece».


Dopodiché arriva il centauro Caco che cerca con insistenza Vanni Fucci. Dante lo descrive sì come già presente nei versi di vari poeti latini, come Virgilio, ma aggiunge anche un drago sputafuoco sulla sua schiena. Come mai? Ebbene, i mostri infernali oltre alla natura umana, devono averne anche una animale, col numero che aumenta a seconda del girone dell’Inferno che vanno a ricoprire. Caco, stando nell’VIII cerchio e alla settima bolgia, deve averne almeno tre. In questo caso, quindi, troviamo: il cavallo, le bisce e il drago. Abbiamo parlato più volte del significato esoterico di questi tre animali.

Questo fa presto intuire che più ci addentriamo al fondo del nostro pozzo infernale, più siamo guidati da energie basse, animalesche, che poco hanno a che fare con l’essere umano. Ancora una volta: bisogna esserne ben consapevoli se vogliamo poi approdare al Purgatorio.

Comunque, chi è Caco? Stando alla mitologia classica, è il figlio di Vulcano, vive in una lugubre grotta sull’Aventino ed è descritto come un gigante che sputa fiamme. È a guardia dei ladri perché è sempre stato interessato al rubare bestiame e a uccidere.
Caco muore sotto la mano di Ercole: l’eroe si è vendicato a colpi di clava per il furto del suo bestiame, commesso proprio dal gigante. Abbiamo scritto suo in corsivo perché c’è da dire che è stato Ercole per primo a rubare la mandria a Gerione, ma questa è un’altra storia.

Anche se tutto ciò può sembrare molto importante, ecco che a quasi metà canto, arriva altro…


Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de’ quai né io né’l duca mio s’accorse,

se non quando gridar: «Chi siete voi?»;
per che nostra novelle si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi.

Io non li conoscea; ma ei seguette,
come sul seguitar per alcun caso,
che l’un nomar un altro convenette,

dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;
per ch’io, acciò che ‘l duca stesse attento,
mi puosi ‘l dito su dal mento al naso.

Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che ‘l vidi, a pena il, mi consento.


Caco ormai è andato, e al suo posto si avvicinano tre spiriti silenziosi, in quanto né Dante, né Virgilio si accorgono subito di loro. Le tre presenze vengono notate quando cominciano a gridare verso i due “turisti”, domandando: “Chi siete voi?”.
Dante non li riconosce, ma ancora prima di chiedere qualcosa, è uno dei dannati a parlare, chiedendosi dove sia Cianfa, e da lì il nostro Poeta capisce che sono fiorentini; fa quindi cenno a Virgilio di restare in silenzio, perché vuole saperne di più.
Quello che succederà, però, desta ancora meraviglia e incredulità a Dante stesso, per cui ci avvisa che potremmo non credere a una prossima parola.

Prima di andare avanti, però, un brevissimo cenno sull’anima sperduta. Probabilmente Dante si riferisce a Cianfa Donati che dal 1282 fino all’anno della sua morte (non è certo, ma prima del 1289) è stato Consigliere del Capitano del Popolo. Anche se ai tempi la famiglia Donati era nota per intraprendere azioni poco nobili – veniva infatti chiamata anche “dei Malefami” – al giorno d’oggi non abbiamo prove certe che questo Cianfa Donati fosse un ladro.

Com’io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.

Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e l’una e l’altra guancia;

li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ‘mbedue
e dietro per le ren sù la ritese.

Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fiera
per l’altrui membra avviticchiò le sue.

Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l’un né l’altro già parea quel ch’era:

come procede innanzi da l’ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e ‘l bianco more.


Non sempre è facile tenere fede alla nostra promessa di analizzare il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, e oggi è una di quelle volte.
Vi vogliamo, infatti, invitare a leggere per bene queste terzine, cercando anche nei vari libri o sulle pagine Google la loro parafrasi, perché è prova di grandiosità del nostro Maestro.

Sperando di non rovinarli, vi diciamo che: l’anima che aveva parlato in precedenza non fa in tempo ad aggiungere altro che un serpente con sei piedi la avviluppa, stringendosi più di quanto possa fare l’edera col tronco di un albero.
Il serpente e l’anima, in una specie di danza erotica quanto brutale, si fondono l’uno nell’altro, in modo tale che nessuno dei due è più quello di prima, proprio come quando si brucia un papiro con il fuoco: il bianco sparisce, ma non diventa subito nero.
Possiamo intuire così che il serpente, prima di essersi unito con quest’anima, si era unito ad altre, cambiando sempre il suo aspetto.

Se dobbiamo rapportarlo al nostro quotidiano, non possiamo fare altro che pensare a quante volte il nostro Ego ripete gli stessi “errori” e mostrandosi diverso, ci fa cadere nei vecchi comportamenti.

Proviamo a fare un esempio: dopo diverse relazioni ci accorgiamo che pecchiamo di gelosia e quindi insicurezza. Abbiamo deciso di cambiare, di lavorare su noi stessi, metterci in gioco, dare sempre più fiducia al nostro partner (neutro) nel frattempo che aumentiamo la nostra autostima. Esultiamo perché non controlliamo più il suo cellulare, non facciamo più una scenata di gelosia se guarda delle foto su Instagram, però… però vogliamo che passi tutti i weekend o tutto il suo tempo libero con noi. Ebbene, questa pretesa, mascherata magari da: “Se mi ami vuoi passare del tempo con me”, non è forse sempre la gelosia o l’insicurezza?

Può cambiare il contesto, possono cambiare le reazioni, ma la radice rimane la stessa e nel corso del nostro cammino spirituale saranno tanti gli inciampi sugli stessi peccati, fidatevi.

Li altri due ‘l riguardavano, e ciascuno
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se’ né due né uno».

Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
in una faccia, ov’eran due perduti.

Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ‘l ventre e ‘l casso
divenner membra che non fuor mai viste.

Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo.


La metamorfosi continua, ma ora abbiamo il nome del dannato che è stato assorbito dal serpente: “Agnel”, che per i commentatori è Agnello (o Agnolo) dei Brunelleschi, di famiglia ghibellina (prima bianchi, poi neri).
Anche qui, non abbiamo notizie certe, anche se i pettegolezzi dei tempi lo vogliono cleptomane fin da bambino.
 
Come ‘l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa,

sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe;

e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso.

Lo trafitto ‘l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse.

Elli ‘l serpente e quei lui riguardava;
l’un per la piaga e l’altro per la bocca
fummavan forte, e ‘l fummo si scontrava.


Come se non bastasse, stiamo per assistere a un’altra metamorfosi. Infatti, arriva un nuovo serpente e si avvicina alla seconda anima, trafiggendola dall’ombelico. Ricordando i dannati passati, che si disperavano a contatto con le loro pene infernali, questa volta, invece, l’anima rimane tranquilla, muta, quasi come se fosse del tutto imbambolata, tanto che Dante paragona il suo stato a quello del sonno o della febbre. Serpente e anima si fissano, del fumo esce dalla bocca del primo e dalla ferita del secondo, mescolandosi anch
esso.

È sicuramente un’immagine straordinaria, probabilmente strana e confusa.
L’ombelico è il nostro primo collegamento dal mondo esterno. Quando stiamo dentro la pancia, infatti, è attraverso il cordone che ci lega con la nostra madre biologica che prendiamo il nutrimento e i sentimenti che condividiamo con lei.

Anche per la cultura orientale l’ombelico, facente parte del Manipura Chakra (Plesso Solare), è la zona che si occupa sia della nostra digestione, che il punto focale dove si concentrano le emozioni, il nostro voler e saper fare e i nostri carismi. Non è un caso, infatti, se molte delle emozioni le viviamo “di pancia”.

Sentiamo, infatti, le farfalle nello stomaco quando siamo innamorati, avvertiamo una morsa allo stomaco quando abbiamo paura, per non parlare dei dolori allo stomaco quando siamo preda dell’ansia.
Insomma: se vi ricordate i mille articoli in cui vi abbiamo parlato della carrozza alchemica, vi ricordate anche di come spesso siano le emozioni (i cavalli sbizzarriti) a guidare la nostra vita, senza alcun comando, tanto meno il nostro.
L’immagine sarà pure diversa, ma il significato rimane lo stesso: quando siamo guidati dall’Ego, quando agiamo col pilota automatico, siamo dei veri e propri robot, inermi al suo volere.

Taccia Lucano omai là dov’è tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca.

Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ‘nvidio;

ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.


Qui Dante cita Lucano e Ovidio ponendosi al di sopra delle loro capacità, perché nonostante i due poeti latini abbiano descritto con magnificenza le varie metamorfosi, non si sono prestati come farà Dante, e cioè dando quanti più dettagli possibili.

Non è un caso che il Poeta “pecchi” di superbia proprio in questo momento, quando precedentemente lui per primo è andato contro Pistoia per lo stesso motivo. Ci ricorda, ancora una volta, di come in questa Commedia non esistano parti divise, ma siamo tutti ogni singolo peccato, ogni singolo personaggio che andremo a incontrare.

Insieme si rispuosero a tai norme,
che ‘l serpente la coda in forca fesse,
e l’ feruto ristrinse insieme l’orme.

Le gambe con le cosce seso stesse
s’appiccar sì, che ‘n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse.

Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.

Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
e ‘l misero del suo n’avea due porti.

Mentre che ‘l fummo l’uno e l’altra vela
di color novo, e genera ‘l pel suso
per l’una parte e da l’altra il dipela,

l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso.

Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
uscir li orecchi de le gote scempie;

ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne.

Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia;

e la lingua, ch’avëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l’altro si richiude; e ‘l fummo resta.

L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l’altro dietro a lui parlando sputa.


Anche qui, come prima, vi invitiamo a leggere con attenzione le terzine e a cercare su Google la loro parafrasi perché la scena merita davvero.
Per dirla in parole povere, sempre con assoluto rispetto nei confronti di Dante, possiamo semplicemente scrivere che – sempre in una sorta di danza brutale quanto erotica – l’anima diviene un serpente e il serpente si tramuta in un’anima. Alla fine di tutto, il primo va via strisciando a terra, la seconda gli sputa contro con disprezzo.

Non ci dilunghiamo per non dover ripetere sempre lo stesso concetto, quindi possiamo proseguire.

Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra,
com’ho fatt’io, carpon per questo calle».

Così vid’io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra.

E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l’animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,

ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato;

l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.


Quando poi le anime vanno via, Dante ci fa gli ultimi due nomi: Puccio dei Galligai (detto lo Sciancato) e Francesco dei Calvacanti, il primo è l’unico rimasto immutato.
Inutile dire anche qui che nessun documento dei tempi dà prove certe che i due fossero dei ladri. Proprio per questo motivo non possiamo sapere come mai tra tutti solo Puccio dei Galligai si “salvi” dal contrappasso forse più tremendo: chi in vita ha rubato qualcosa a qualcuno, si vede privato della propria identità.

E in effetti è proprio quando cediamo il comando di chi davvero siamo alle nostre emozioni (guardiamo a Inside Out, per esempio) che perdiamo del tutto il nostro vero Io.

Prepariamoci bene al prossimo mese perché con il Canto XXVI incontreremo Ulisse!
 

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