venerdì 27 ottobre 2023

#DivinaCommedia: Canto XXX

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.


Oggi analizziamo il trentesimo canto dell’Inferno. Qui troviamo diversi tipi di falsari: quelli di persona, di moneta e di parola, ognuno dei quali con un contrappasso diverso ma ugualmente terribile.     
Incontreremo persone reali, come Gianni Schicchi e Mastro Adamo, ma anche personaggi legati alla mitologia classica come Mirra e Sinone a significare che questo peccato risiede nell’inconscio collettivo di tutti.


Le domande che ci suscita il canto sono latenti, perché è davvero difficile trovare tutto ciò in noi, soprattutto se, come le anime, siamo persone portate a colpevolizzare l’esterno per qualsiasi cosa ci accada.

Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.

Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra ’l sangue tebano,
come mostrò una e altra fïata,

Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano,

gridò: «Tendiam le reti, sì ch’io pigli
la leonessa e ’ leoncini al varco»;
e poi distese i dispietati artigli,

prendendo l’un ch’avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s’annegò con l’altro carco.

Il canto precedente ha un finale che sembra essere senza conclusione, proprio perché Dante e Capocchio stanno continuando a parlare. Come spesso è accaduto, però, all’Inferno è normale vedere anime che irrompono improvvisamente e questo è l’ennesimo caso. Per descrivere lo stato d’animo di chi sta arrivando, Dante si rifà a due immagini del mondo greco, entrambe prese dalle Metamorfosi di Ovidio.

La prima la vediamo subito: siamo alle solite, Zeus si innamora di Semele, figlia di Cadmo (fondatore della città di Tebe) e Armonia (figlia di Ares e Afrodite). Questo scatena l’ira di Era, (moglie del dio) che, trascinata da tale sentimento, decide di vendicarsi volendo uccidere la ragazza. Così si trasforma in Beroe, sua nutrice, e la convince di chiedere all’amante di apparirle come il dio.
Semele esplica la richiesta a Zeus che, estremamente titubante, non riesce a negarle la supplica e l’accontenta trasformandosi. La ragazza, però, non regge alla vista del dio e muore folgorata dal fulmine.

C’è anche da dire che Zeus riesce a salvare il bambino che aveva in grembo Semele, il quale sarà poi Dionisio. Divenuto uomo e immortale, questo discenderà nell’Ade per prendere sua madre e portarla all’Olimpo con il nuovo nome Tione.

Torniamo a Era: non contenta della morte di Semele, decide di prendersela anche con la sorella Ino e suo marito Atamante, portandolo alla pazzia: convinto di avere davanti agli occhi una leonessa con i suoi due cuccioli (invece che la moglie con i figli Learco e Melicerte), si abbatte su di loro, afferrando il primo e buttandolo verso uno scoglio. La sorte del secondo è simile, ma viene scagliato verso il mare. Ino annega assieme al figlio, nel tentativo di salvarlo.


Anche qui il finale riserva una piccola gioia: nonna Afrodite, impietosita dalla sorte riservata alla nipote e ai pronipoti, prega Poseidone di trasformare Ino e Melicerte in déi. Viene accontentata e da allora vengono conosciuti la prima come Leucotea e il secondo come Palèmone. Atamante invece, viene trasformato in un fiume.

Se togliamo il loro seguito e ci concentriamo solo sulle azioni di Era, notiamo già il forte sentimento rabbioso che ci accompagna lungo il canto, ma Dante non si accontenta e vuole approfondire meglio.

E quando la fortuna volse in basso
l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,
sì che ’nsieme col regno il re fu casso,

Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva

del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.

Ora non ci concentriamo sulla rabbia, bensì sull’estremo dolore che si prova quando siamo davanti a una situazione tragica.


Ecuba è la seconda moglie di Priamo, re di Troia, dalla quale ebbe quattordici figli (tra cui Ettore, Paride, Cassandra, Eleno e il primo Polidoro).
Il matrimonio dei due è saldo, Ecuba non si occupa solo della sua parte di prole (Priamo infatti ha cinquanta figli in totale, con diverse mogli) ma di tutta quella del marito in egual misura. In aggiunta a ciò, si dimostra una vera e propria consigliera di governo, dando consigli utili sia al marito che ai figli.

La vita di Ecuba non l’ha risparmiata dal dolore: diventa la schiava di Ulisse e vede morire sia il marito che tutti i suoi figli. Quando ritrova il corpo di Polidoro, sulle rive del mare, emette un grido di disperazione che assomiglia a un latrato del cane, ecco perché la sua tomba – situata nell’odierna Gallipoli, in Turchia – prende il nome di “Cinossema” o “Tomba della Cagna”.

Stiamo quindi di fronte ai sentimenti di ira furiosa e di dolore lancinante.

Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane,

quant’io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che ’l porco quando del porcil si schiude.

L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo l’assannò, sì che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.

E l’Aretin che rimase, tremando
mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando».

«Oh!», diss’io lui, «se l’altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi è, pria che di qui si spicchi».

Ed elli a me: «Quell’è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre fuor del dritto amore amica.

Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,
come l’altro che là sen va, sostenne,

per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma».

I miti appena narrati servono giusto da base perché le due anime che si avventano su Capocchio sono mille volte più potenti di quanto detto prima. Sono fameliche proprio come un maiale rinchiuso da tempo in un porcile che vede la libertà. Capocchio è ormai inerme sul terreno, così è Griffolino d’Arezzo a spiegare a Dante che le due sono Gianni Schicchi e Mirra.


Il primo è un noto personaggio fiorentino del Duecento, appartenente alla famiglia Cavalcanti. Non si sa molto della sua storia, se non che era famoso per falsificare la persona.
Quando Buoso Donati il Vecchio fu in fin di vita, l’amico dello Schicchi e nipote del moribondo, Simone Donati, gli chiese di mettere mano sul testamento intestando tutto a lui, visto che lo zio era vedovo e senza figli. Schicchi accettò e pare che non si fermò solo a questo, bensì si fece dare una giumenta, tanto per ridere di ciò.

La seconda è Mirra, un personaggio della mitologia classica anch’esso ripreso da Ovidio.
Questa è follemente innamorata del padre Cinira, tanto che non riuscendo a placare i suoi istinti, tenta il suicidio. Viene salvata dalla nutrice alla quale confida tutto e lei, serva fedele della ragazza che ha cresciuto, si incarica di aiutarla. Le consiglia di infilarsi nel letto del padre, facendo finta di essere Cencreide, una vergine devota alla dea Cerere.

Cinira, venuto a sapere proprio dalla nutrice che una vergine sospirava per lui, accetta di averla nel suo talamo, purché non la veda mai negli occhi. Padre e figlia, così, si uniscono per diverse notti, fino a quando l’uomo pretende di vedere il suo volto.

Venuto così a scoprire la verità, Cinira, acciecato dall’ira, ordina di uccidere la figlia ma Mirra riesce a scappare. La fuga dura diversi mesi, nei quali lei si accorge di essere incinta. Arrivata al momento del parto è ormai nella lontana terra Saba e, sfinita, chiede perdono agli dèi per quello che ha fatto, assumendosi ogni responsabilità e per questo è pronta a essere bandita sia dal mondo dei vivi che da quello dei morti. Gli dèi, impietositi per la sua condizione, accettano le sue preghiere e la trasformano nell’albero che porta ancora oggi il suo nome.


Adone, il bambino, riesce comunque a nascere grazie all’aiuto della dea Giunone Lucina e verrà cresciuto dalle Naiadi.

Le prime due anime sono i falsificatori di persone che come contrappasso rinunciano totalmente alla propria identità, in una corsa eterna volta al solo obiettivo di addentare le anime che incontrano. Proprio per questo rimangono confinati all’Inferno: non hanno modo di fermarsi e guardarsi dentro.     
Una domanda sorge spontanea: come mai Mirra non è finita nel girone dei lussuriosi? Dante ci spiega che la lussuria è un peccato minore se paragonato alla falsificazione, cerchiamo di capire il perché.


Possiamo intuire che i desideri della carne sono naturali e, proprio come accaduto per Paolo e Francesca, è davvero dura resistere alla tentazione quando si è preda dell’amore e del turbinio della passione. Per falsificare, invece, ci vuole un vero e proprio intelletto, una pianificazione. Mirra ha agito a mente fredda, ben consapevole del danno che avrebbe arrecato a sé, al padre e a un probabile nascituro.


E poi che i due rabbiosi fuor passati
sovra cu’ io avea l’occhio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.

Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.

La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l’omor che mal converte,
che ’l viso non risponde a la ventraia,

facea lui tener le labbra aperte
come l’etico fa, che per la sete
l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte.

Passata questa fase, Dante si ritrova a guardare gli altri dannati, accorgendosi di uno in particolare dal “corpo” con la forma di liuto. Il Poeta riconosce subito che è affetto da una grave forma di idropisia – una condizione oggi conosciuta con il termine anasarca che raccoglie i liquidi del corpo principalmente sull’addome, fino a farlo gonfiare – tanto da farlo assomigliare allo strumento musicale.

L’anima ha anche la bocca aperta, ricordando il tisico che ricerca l’acqua essendo perennemente assetato.

Come abbiamo già accennato in diversi canti, è sorprendente vedere la cura nei dettagli di Dante che adesso notiamo anche dal punto di vista medico-scientifico. Dalla volta precedente sappiamo infatti che aveva studiato a lungo queste discipline, per l’epoca non di certo alla portata di molti. Aveva quindi ben chiaro in testa il significato della loro punizione, che andiamo adesso a vedere.

«O voi che sanz’alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo»,
diss’elli a noi, «guardate e attendete

a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,
e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.

Li ruscelletti che d’i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga
che ’l male ond’io nel volto mi discarno.

La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.

Ivi è Romena, là dov’io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai.

Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.

Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c’ho le membra legate?

S’io fossi pur di tanto ancor leggero
ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia,
io sarei messo già per lo sentiero,

cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
e men d’un mezzo di traverso non ci ha.

Io son per lor tra sì fatta famiglia:
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia».

Con la solita superbia e l’orgoglio che contraddistinguono le anime infernali, questa nuova si presenta e racconta a Dante tutta la sua storia.
È Mastro Adamo, secondo alcuni storici uomo illustre che dall’Inghilterra si trasferì, probabilmente per studio, prima a Brescia, poi a Bologna. Già nel 1277 è a Romena, nel Casentino, alla corte dei Conti Guidi (tre fratelli: Guido, Alessandro e Aghinolfo) i quali lo spinsero a falsificare la moneta fiorentina.

Catturato poi dalla signoria fiorentina, morì arso sul rogo nel 1281.

Molto probabilmente la scelta dell’idropisia sta proprio nel fatto che contraffacendo le monete, dava loro un peso maggiore utilizzando altri metalli. Ecco perché il suo corpo è deforme e non può più provvedere al suo naturale funzionamento.

Le parole di Mastro Adamo sono dure e inveiscono tutte contro i tre fratelli rei, secondo lui, della sua condanna. Ecco un’altra anima che non si prende la responsabilità delle proprie azioni. In più a spingerlo a parlare è la vendetta perché la sua pena, oltre a quella di essere perennemente assetato, lo rende inerme e quindi impossibilitato nel movimento, tanto da non vedere nulla se non i ricordi dell’abbondanza che ha avuto in vita. Per questo ristagna in lui il rancore con il quale vorrebbe punire i Conti per averlo privato della vita.

Sa, dagli altri suoi compagni, che uno dei tre conti è morto e sta in questa bolgia, solo che lui non può saperlo con certezza.

L’anima, così, manifesta la voglia immensa che ha di desiderare un altro altrove: dove è possibile muoversi. In quel caso andrebbe cercandolo, anche se questo dovesse fare un passo (anche meno, se consideriamo che un’oncia sono quattro, sei centimetri circa) ogni cento anni.

Quindi, ricapitoliamo: Mastro Adamo si trova all’Inferno e per questo che non ammette le sue colpe, facendo ricadere il loro peso sui mandanti, ma soprattutto non accetta il suo presente, tornando con la mente al passato e desiderando una condizione diversa da quella che ha.
Anche a noi stiamo all
Inferno ogni volta che non accettiamo il nostro presente ed evadiamo con la mente.

Proprio mentre il tutto acquisisce una sua pesantezza, Dante ci viene in soccorso e alleggerisce i toni in una lite da commedia
 
E io a lui: «Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?».

«Qui li trovai – e poi volta non dierno – »,
rispuose, «quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».

E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’esser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l’epa croia.


Dante non dà credito alle parole di Mastro Adamo che accusa i conti e per farlo cambia totalmente discorso, osservando altre anime con una diversa pena: i loro corpi fumano proprio come le mani durante le gelate invernali. Così chiede chi siano due di loro e il suo interlocutore risponde che una è la moglie di Putifarre, l’altro è Sinone. Al solito, andiamo a vedere meglio di chi si tratta.

La prima è un personaggio biblico, tratto dal libro della Genesi (39,6-20), di cui non conosciamo il nome. Sappiamo, però, che è la moglie del ricco signore d’Egitto – Putifarre, appunto – il quale comprò come schiavo Giuseppe e, notando le sue alte abilità, lo mise in breve tempo ad amministrare la propria casa.
La moglie si innamorò dello schiavo ma, rifiutata con veemenza, (tanto che Giuseppe le strappò involontariamente la veste) mentì al marito dicendogli che lo schiavo aveva tentato di violentarla, dando come prova la veste lacerata.
Così l’innocente, calunniato dalla moglie del padrone, finì in carcere, non senza la Grazia Divina: Giuseppe, infatti, anche lì diede prova delle sue capacità diventando il braccio destro del direttore carcerario.

Sinone, invece, appartiene alla mitologia classica. È cugino di Ulisse e per questo lo affianca sia nella guerra di Troia, sia nel viaggio verso Itaca.
In vita è stata una persona coraggiosa, tanto che si fa prendere volutamente prigioniero dai Troiani, per convincerli che dentro le mura ci fosse il celebre cavallo di legno, simbolo di pace e riconciliazione. Nonostante Laocoonte li avesse avvisati già in precedenza della bugia, i Troiani credono alle parole di Sinone e questa ingenuità fa piegare la città di Troia.
Sinone poi morirà proprio nel viaggio di ritorno verso Itaca, nello stretto di Scilla e Cariddi.

Le due anime, quindi, sono falsificatori di parola perché hanno detto il falso ben consapevoli del danno che avrebbero poi arrecato. La loro pena è quella di avere una forte febbre, così alta che il loro corpo emette vapore.
Sappiamo che acqua e fuoco rappresentano la purificazione, ma qui di liberazione del male c’è ben poco, se vediamo come Sinone reagisce alle parole di Mastro Adamo.

Prima di procedere, però, è lecito interrompere lettura e scrittura per farci qualche domanda: quand’è che mentiamo sulla nostra identità? Sui nostri valori? Sulla realtà?

Vedete, è facile dire che noi non siamo come loro, ma non serve manomettere un testamento o fingerci nell’effettivo qualcun altro per compiere questo peccato. Quante volte ci mostriamo agli altri per come non siamo? Mettiamo la maschera di è di più, copriamo i nostri difetti in ogni modo e in epoca di social mostriamo solamente una parte della nostra vita, quella che serve per creare l’immagine che ci siamo dati.
Per non parlare di quando inganniamo dando più o meno valore a determinati oggetti o situazioni, sempre per nostro tornaconto. O quando dissimuliamo il comportamento di chi sta attorno per farci apparire migliori e/o in qualche modo innocenti.
Ogni volta che attuiamo questi comportamenti, anche se ce la raccontiamo siano a fin di bene, stiamo vivendo proprio come le anime presenti al XXX canto.

Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,

dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto».

Ond’ei rispuose: «Quando tu andavi
al fuoco, non l’avei tu così presto;
ma sì e più l’avei quando coniavi».

E l’idropico: «Tu di’ ver di questo:
ma tu non fosti sì ver testimonio
là ’ve del ver fosti a Troia richesto».

«S’io dissi falso, e tu falsasti il conio»,
disse Sinon; «e son qui per un fallo,
e tu per più ch’alcun altro demonio!».

«Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,
rispuose quel ch’avëa infiata l’epa;
«e sieti reo che tutto il mondo sallo!».

«E te sia rea la sete onde ti crepa»,
disse ’l Greco, «la lingua, e l’acqua marcia
che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!».

Allora il monetier: «Così si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
ché s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,

tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a ’nvitar molte parole».


Vi consigliamo di leggere bene i versi che andremo ad analizzare, e nel caso di trovare la loro parafrasi perché il botta e risposta delle anime è davvero divertente.

Sinone, offeso dalle parole di Mastro Adamo, si avventa su di lui e inizia a incalzarlo deridendolo per quanto fatto in vita. Dà così il via a un litigio davvero infantile, dove i due si rimbeccano continuamente delle colpe avute. Vedendo il marcio dell’altro si dicono che almeno il proprio è minore ma non considerano la verità: sono entrambi nella stessa bolgia, ciò vuol dire che il loro peccato è uguale agli occhi della Grazia.

Il modo in cui Dante lo scrive riprende il modello della commedia antica, tra ritorsione e replica. Entriamo così tanto nel bisticcio che quasi ci dimentichiamo di quanto detto prima, e le immagini nella nostra mente rimbalzano tra Sinone e Mastro Adamo come se stessimo osservando una partita di ping-pong.
Chi ha a che fare con i bambini avrà sicuramente notato quanto questa lite sia simile a quelle infantile: “Se io ho fatto questo è perché lui/lei ha fatto quest’altro” e in effetti iniziamo questo con schema mentale fin dalla più tenera età (anche perché lo insegnano molti genitori “Se ti sgrido è perché tu hai fatto questo”) per non abbandonarlo mai. Diciamoci la verità, quante volte abbiamo pensato: “Beh, se ho agito così è perché sono stato ferito.”?

Ad ascoltarli er’io del tutto fisso,
quando ’l maestro mi disse: «Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso!».

Quand’io ’l senti’ a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
ch’ancor per la memoria mi si gira.

Qual è colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,

tal mi fec’io, non possendo parlare,
che disïava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.


Come detto, leggendo le parole tra Sinone e Mastro Adamo entriamo nel vivo della lite e così fa anche Dante, interessato, forse divertito quanto noi ad ascoltare i due. Non è dello stesso avviso Virgilio, che, assente per tutto il canto, sgrida nella maniera più irosa il vivo dicendogli: “Adesso stai bene attento che manca poco a litigare con te!”. Al ricordo di queste parole, Dante prova la stessa vergogna di quel momento, che lo portarono a piangere, scusandosi di quanto stava facendo.
Si paragona a qualcuno che nel pieno di un incubo desidera di star sognando: lui prova a chiedere perdono, ma il pianto e l’angoscia per essere stato ripreso così duramente lo portano a non sapere come chiedere l’assoluzione alla colpa, eppure è proprio così che la ottiene.

Notiamo un fatto fondamentale: Dante non incolpa nessuno se non se stesso. Ripreso da Virgilio, non tenta di giustificarsi, bensì si scusa profondamente. Di certo nel suo interno non vive più all’Inferno, anche se è ancora attratto dal peccato.

Continua a sbagliare, è normale per un vivente, e il suo essere rimasto fermo a osservare il litigio può avere il significato che dopotutto al tempo anche Dante tendeva a falsificare, o per lo meno a essere rabbioso e vendicativo. Beh, ci può stare, visto che ha condannato pubblicamente molti dei suoi nemici.

«Maggior difetto men vergogna lava»,
disse ’l maestro, «che ’l tuo non è stato;
però d’ogne trestizia ti disgrava.

E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna t’accoglia
dove sien genti in simigliante piato:

ché voler ciò udire è bassa voglia».


Virgilio lo perdona, perché la reazione di Dante è giusta per passare oltre peccati ben più gravi. Arriva così un accenno su quello che saranno Purgatorio e Paradiso: tutti sbagliano, ma la Salvezza la si ottiene solo dal prendersi il carico delle azioni errate. Difatti la Guida continua a dire che spera di stargli sempre accanto, in un modo o nell
’altro, se in futuro gli verrà da osservare liti come questa, perché voler rimanere è indice di volgarità, meschinità e miseria.

Insomma, Virgilio sa perfettamente che Dante potrebbe incappare di nuovo nello stesso tranello, e per questo gli augura di ricordarsi delle sue parole per tempo, in modo che non ci si attacchi più del dovuto. Ricordiamocene anche noi quando perdiamo tempo a osservare litigi tra sconosciuti…

Il prossimo mese abbandoneremo i falsari per dedicarci ai Giganti, situati tra i già citati e i traditori, questi ultimi peccatori dell’Inferno.

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