sabato 4 dicembre 2021

#DivinaCommedia: Canto VII

Come vi avevamo già detto nell’analisi esoterica del VI Canto, qui nel VII ritroviamo la stessa lezione, da un altro punto di vista. Quando ciò che dobbiamo comprendere è estremamente importante e a volte troppo grande per noi, la Vita ci offre la stessa situazione di base, da prospettive diverse.

Così è strutturata anche la Divina Commedia, proprio per il suo essere una guida al nostro cammino iniziatico. Vi ricordiamo che la stiamo analizzando dal punto di vista strettamente esoterico, quindi salteremo le parti politiche, storiche o d’ispirazione alla letteratura, se non necessarie al nostro fine. 

«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,

disse per confortarmi: «Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia».

Poi si rivolse a quella ‘nfiata labbia,
e disse: «Taci, maladetto lupo!|
consuma dentro te con la tua rabbia.

Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, là dove Michele
fé la vendetta dal superbo strupo”.

Se avete già studiato questo canto, sapete che ci sono delle incertezze sul perché Dante abbia fatto pronunciare a Pluto, custode del IV cerchio infernale, parole incomprensibili. Così come è anche avvolta nel mistero la vera figura di Pluto e del perché sia stato chiamato “lupo” da Virgilio. 

Noi non stiamo qui a sciogliere questi dubbi, non avendo alcun titolo per farlo, semplicemente vogliamo farvi notare una cosa: il lupo, o la lupa, è una delle tre fiere e rappresenta l’avarizia-cupidigia, quindi è normale riavere la figura dell’animale qui.

Ma ora andiamo ad analizzare il perché delle parole prive di un filo logico. Anche se in molti hanno provato a darne un significato, noi vogliamo rimanere fedeli il più possibile al senso del cammino iniziatico, quindi la spiegazione ci viene piuttosto facile.

Spesso il nostro Ego, la vocina infernale dentro di noi, comunica in modo subdolo e inspiegabile. A tutti noi è sicuramente capitato di sentirci confusi, atterriti, impauriti, senza alcun motivo valido. E quando proviamo a capire il perché, avviamo un processo di spiegazioni che al momento ci sembrano del tutto razionali. Ecco quindi, che siamo caduti nel tranello dell’Ego, o del corpo di dolore, che dir si voglia.

Virgilio qui ci mostra la vera via per tenere a bada il demone al nostro interno: dobbiamo dirgli di tacere, ricordandoci di non prestare ascolto alle sue parole. Se rimaniamo fermi nel nostro silenzio, distaccati dalle parole che ci ripete l’Ego, questo piccolo, grande, demone continuerà sempre a parlare, ma lo farà dentro di sé, a noi non toccherà.

Quando la vocina tace, noi possiamo osservare il gran movimento del nostro interno, e nel caso di Dante, possiamo osservare altre anime con le loro pene.  

Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’urli,
voltando pesi per forza di poppa.

Percotëansi ‘ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».

Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l’opposito punto,
gridadosi ancheloro ontoso metro;

poi si volgea ciascun, quand’era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
E io, ch’avea lo cor quasi compunto,

dissi: «Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra”.

Noi vediamo, tramite le parole di Dante, delle anime divise in due schiere che camminano, trasportando un masso per il cerchio in senso opposto le une alle altre. Nel momento in cui si incontrano si urlano a vicenda, quasi accusandosi. Una parte sgrida l’altra di tenere il masso, e l’altra sgrida una parte per averlo lasciato andare. Dante chiede il perché a Virgilio di tali comportamenti, e Virgilio spiega al poeta ciò che abbiamo già intuito: avarizia e prodigalità sono semplicemente le due facce di una stessa medaglia.

Così come è stato appena accennato nel girone dei golosi, accumulare denaro dovrebbe farci rendere conto che stiamo peccando nei confronti della Vita. Se agiamo nel “non si sa mai”, pensiamo che la vita sia cattiva, sempre pronta a punirci e a non darci ciò di cui non abbiamo bisogno.

Nel canto dedicato a Paolo e Francesca, abbiamo notato come dare la colpa agli altri di ciò che ci accade è uno dei simboli più comuni di stare all’Inferno. Così, quando mangiamo per gola, o quando ammassiamo denaro o beni preziosi, stiamo inconsciamente dando la colpa a qualcuno all’esterno, aspettandoci che prima o poi ci verrà a togliere ciò che abbiamo ora.

D’altra parte, bisogna anche portare massimo rispetto alla Vita. Non si può sperperare ciò che abbiamo senza un motivo più che valido. Non possiamo pensare: “Ah, tanto ho tantissimi soldi, posso anche spenderli sempre per sciocchezze”. In questo meraviglioso canto Dante ci insegna di non stare mai nei due estremi, ma di trovare sempre un equilibrio tra i vari comportamenti umani.  

E io: «Maestro, tra questi cotali
dovre’io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali».

Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni.

Attenzione, perché queste parti di noi sono molto difficili da vedere. Tant’è che quando Dante chiede a Virgilio chi siano quelle anime, Virgilio gli risponde che sono del tutto irriconoscibili. Vi assicuriamo che è estremamente difficile capire quando stiamo agendo per avarizia e quando per prodigalità. Spesso confondiamo questi atteggiamenti con la parsimonia o la generosità, fatto sta che entrambi sono strettamente collegati. Questo collegamento tra i due estremi, è ovviamente governato dalla famosissima Fortuna. Dante chiede quindi a Virgilio di spiegargli come funziona il tutto, e la sua guida non si tira indietro.  

E quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ‘mbocche.

Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e dié lor chi conduce
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,

distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce

che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;

per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.

Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.

Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.

Quest’è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrei dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;

ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.

Secondo la nostra modestissima opinione, l’immagine della Fortuna che ci ha lasciato Dante è a dir poco meravigliosa. E ricordandoci che non esiste nulla di esterno a noi, ma tutto è dentro la nostra mente, l’immagine della Fortuna diventa anche estremamente importante. 

Questo essere divino, creato proprio da coLui che ha creato il tutto, fa semplicemente il suo compito: gira una ruota e a sorte, un po’ per tutti, tocca il dare e tocca il ricevere. È esattamente l’idea dell’equilibrio che dovremmo cercare di avere, sempre. A volte si ha, altre volte si dà.

E l’errore che compie continuamente l’essere umano è quello di colpevolizzare la Fortuna, di prenderla a male parole, anche se dovremmo solamente ringraziarla. Sappiamo che è difficile capire questo concetto, soprattutto quando siamo sommersi dai guai, ma dobbiamo cercare di capire in modo molto più ampio l’intera situazione: per avere abbondanza, bisogna passare anche momenti di mancanza. Non possiamo continuare a riempire un secchio d’acqua all’infinito, prima o poi questo secchio si rovescerà al suolo.

Così come nell’articolo precedente vi abbiamo detto che non può esserci guarigione senza una ferita, ora vi facciamo notare quanto fortuna e sfortuna siano estremamente collegate. Nel linguaggio odierno il tutto può riferirsi al Karma. Facciamo, ancora, attenzione: questa legge tanto amata dalle persone in cerca di vendetta, non è un occhio per occhio. Ci dispiace dirvelo. Il Karma è più che altro un concetto di causa-effetto, quando si è compresa la causa, e ci accorgiamo della sua negatività, possiamo trascenderla anche senza aspettare l’effetto.

Se, quindi, siamo molto attenti a ogni nostra azione sprovveduta, possiamo non attirare alcuna sfortuna verso di noi, anche se la ruota della Fortuna continua a girare, sorda e cieca alle nostre reazioni. “La vita è il 10% ciò che ti accade e per il 90% come tu reagisci alle cose che ti accadono”. Per dirla alla John C. Maxwell.  

Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva
sovr’una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.

L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
intrammo giù per una via diversa.

Dante e Virgilio proseguono il cammino, e ci ritroviamo ancora una volta l’immagine dell’acqua, questa volta sottoforma di un fiume, quello che è lo Stige. Il ruscelletto si trasforma in una palude dove dentro ci sono gli iracondi. Torna anche qui l’immagine di acqua-terra-fango. Stiamo nella parte dei peccati dove abbiamo capito l’errore, ma non sappiamo ancora come affrontarli per passare oltre.  

Ora più di prima, siamo sommersi nell’acqua, sperando che essa possa purificarci, ma in realtà non stiamo facendo niente per lavare via le nostre colpe.  

Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.

Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;
e anche vo’ che tu per certo credi

Che sotto l’acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest’acqua al summo,
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.

Certo che è estremamente difficile, quasi impossibile, non vedere quando stiamo cedendo all’ira. Possiamo anche non essere tipi maneschi, ma rabbia e collera trovano sfogo anche nelle urla, nel prendersela con gli oggetti. Ecco, vedete, ancora una volta, in questo nostro atteggiamento, ci stiamo sfogando contro qualcosa o qualcuno.

Sappiamo benissimo che è difficile reprimere questo sentimento, a volte è persino dannoso. E lo sanno anche le anime che continuano a incolparsi, a farsi del male, addirittura mangiandosi l’un l’altro. In questo contesto sono ben consapevoli di aver peccato d’ira, ma come le anime precedenti, non riescono a darsi pace.  

Così girammo de la lorda pozza
grand’arco, tra la ripa secca e ‘l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.

Venimmo al pié d’una torre al da sezzo.

Per certi atteggiamenti bisognerebbe imparare a gestire e trasformare la propria energia interna. Ovviamente non è ancora il momento, bisogna prima imparare a osservare, poi a governare tutti i moti che troppo spesso ci guidano. Così il canto finisce, ma abbiamo ancora molto altro da scoprire. Questa ancora non è la conclusione di una lezione, ma anzi, ritroveremo nell’VIII Canto un altro punto di vista ancora.

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