lunedì 6 dicembre 2021

#TheBeatles: Get Back, prima parte

Se avete seguito la terza puntata della seconda stagione di Apollo Station su RadioSapienza (nel caso recuperatela cliccando su questo link), già lo sapete. In caso contrario, non vi mentiremo: siamo ossessionate con Get Back. Come ha già scritto Frè in una sua storia Instagram: “Chi dice che la Beatlemania è finita, non è mai uscito con noi”. E non c’entra il sapere vita, morte e miracoli dei quattro ragazzi di Liverpool, né sapere a memoria il loro quadro astrale. Ci siamo ossessionate punto per punto su ogni parte. Abbiamo ascoltato e riascoltato ogni dialogo, analizzato ogni espressione facciale… insomma, alla quarta visione, possiamo dire di essere pronte alla recensione più oggettiva e completa che possiamo fare.

Quindi mettetevi comodi, ma soprattutto: se vedete che abbiamo saltato qualche cosa, non esitate a farcelo notare, tanto non preoccupatevi: stiamo trovando ogni pretesto per rivedere il docu-film senza apparire delle psicopatiche.

Come ben sapete, i quattro passavano molto tempo negli studi di registrazione, ma quel gennaio del 1969, subito dopo le vacanze di Natale, i ragazzi non dovevano solo lavorare al nuovo album, ma anche dare materiale per un film e preparare uno spettacolo dal vivo dopo anni lontani dal palcoscenico.
Il 2 gennaio 1969 si ritrovano negli studi Twickenham, dove nel settembre 1968 avevano già registrato live il video di “Hey Jude”, avendo però tra le mani poco o niente. Comincia così il lavoro di ricerca delle canzoni, che va anche a ritroso nel tempo, fino a fine anni Cinquanta, quando John e Paul erano adolescenti e componevano insieme a casa del secondo. Nelle inquadrature del testo originale “Two of us”, infatti, è chiara la firma: “The Quarrymen”, nome che in origine aveva il gruppo.

Le date previste per lo spettacolo live sono quelle del 19 e 20 gennaio, così in poco meno di tre settimane, i Beatles devono avere pronte quattordici canzoni. Ora, siamo nel 1969, non nel 2021. Se oggi è normale essere ripresi il più possibile, all’epoca non lo era di certo, e i quattro oltre al lavoro sentono la pressione delle telecamere e dei microfoni che catturano ogni loro parola ed espressione. Il regista è Michael Lindsay-Hogg, che a fine lavoro avrà a disposizione più di sessanta ore di video e più di centocinquanta ore di audio.

Fin dalla prima mezz’ora, anche per chi non ha mai seguito il gruppo, cominciano a delinearsi i quattro caratteri differenti, ma molto marcati. Dalla morte improvvisa del loro manager Brian Epstein, il 27 agosto 1967, i quattro hanno perso la loro figura di riferimento, quello che segnava il confine tra gioco e disciplina. È chiaro che per rimanere uniti ne hanno bisogno, anche se non la accettano da nessuno di esterno. Ci pensa così Paul a prendere il comando del timone, anche se è un ruolo che odia e di cui vorrebbe fare volentieri a meno. John è inizialmente molto riflessivo, segue le idee di Paul, mettendoci il suo. Diversamente dal primo, che ha bisogno di molta teoria e ponderazione, l’impulsività di John lo porta a ricordare al grande amico che dà il meglio di sé quando è con le spalle al muro e non rimane molto tempo per il margine di manovra. In un certo senso lo tranquillizza per la mancanza di materiale, convincendolo che dalla prossima settimana andrà sempre meglio.

George, definito da tutti il più tranquillo e riservato, è invece colui che più degli altri cerca di tenere testa a Paul, non per rivalità o invidia, ma perché lui per primo si sente di non essere abbastanza.
George è il più piccolo nel gruppo ed è anche quello cui il talento di compositore è sbocciato leggermente più tardi rispetto a John e Paul; non deve essere stato di certo facile lottare internamente tra il provare a comporre e restare in silenzio perché non all’altezza degli altri componenti della band.
Nel docu-film questo si può notare spesso, quando si paragona a Eric Clapton - suo amico -, o quando si ostina a ripetere che ciò che gli dicono di fare è troppo difficile. Anche se Paul e John lo sostengono (George: “Ci servirebbe uno come Clapton.” John: “Non ci serve Clapton, ci serve Harrison.”) lui sembra non accorgersene, e se solo un Pesci può capire un altro Pesci (letteralmente, visto che le due Toro ci hanno poi chiesto: “Ma perché George è andato via?”) vi assicuriamo che questa lotta interiore l’ha avuta per più di una settimana, fino a quando, il 10 gennaio 1969, decide di lasciare la band.

Ringo è davvero quello più tranquillo, forse in apparenza potrebbe sembrare che a lui non importi nulla di nulla, ma noi lo abbiamo visto quasi come una figura materna, in grado di rilassare i presenti, come la stessa Linda Eastman ha detto nel film, e di mettere pace. Infatti è proprio lui che organizza, quel giorno stesso, una cena a casa sua assieme a tutti i componenti del gruppo (e le relative compagne) per parlare con George. La cena non andrà bene, ma di questo parleremo nella seconda parte.

Tra momenti di serietà e quelli di divertimento più puro, utili per stemperare la tensione di uno spettacolo sempre più vicino, notiamo anche la nascita di canzoni come “Get Back”, (se amate la musica, è veramente un momento commuovente) che dà proprio il titolo al docu-film, il lavoro fatto da tutti sulla “Harrisong” “I Me Mine”, e le prove di una - a nostro parere - tra le più belle della band: “Across The Universe”, dove abbiamo dovuto mettere pausa per rivedere più volte il tono utilizzato da John Lennon quando ai versi: “Nothing’s gonna change my world” (trad. “Niente cambierà il mio mondo”), commenta: “I wish it fucking would.” (trad. “Vorrei che lo facesse, cazzo”). Perché lo abbiamo visto e rivisto più volte? Semplicemente perché c’è quel cambiamento tra un John che ha scritto il testo dopo una lite con la prima moglie, Cynthia, e il John che lo sta cantando in quel momento, che vorrebbe il suo mondo cambiasse del tutto.

Attenzione: ciò che andrete a leggere non è presente nel documentario, ma frutto della nostra memoria. Purtroppo non possiamo ricordarci in quale contesto o intervista John ha parlato della nascita della canzone, quindi fidatevi di alcune fan ossessive. Era sdraiato a letto, e aveva ancora le parole di Cynthia in testa. Così si mise semplicemente a scrivere il testo in un processo totalmente inconscio, tanto che Lennon ha dichiarato di aver aggiustato solo due o tre versi, il resto non è opera sua. Vi abbiamo messo questo extra perché quando diciamo che gli artisti sono solo un canale di una Fonte che proviene dall’alto, parliamo proprio di ciò. Spesso ciò che scriviamo, o diciamo, non è assolutamente frutto di una nostra volontà, ma di questo abbiamo già parlato e sicuramente continueremo a parlare. Così è alla luce la lotta tra inconscio e conscio di John, che ci ha palesemente incantate.

Tra altri momenti più spensierati, Paul e John fanno sbocciare “Commonwealth”, semplicemente leggendo i giornali dell’epoca. In quei giorni la politica e il popolo inglese discutevano in termini accesi di immigrazione, e lo stesso tema è presente anche nella fase iniziale di “Get Back”, dove i protagonisti sono gentilmente invitati a tornare dal posto da cui provengono. Una canzone protesta, ovviamente, che già fa vedere quanto John tenesse all’importanza della comunicazione e della fratellanza, che sarà poi la spinta che lo guiderà per tutti gli anni Settanta.

I testi iniziali di “Get Back” e “Commonwealth” non sono stati mai pubblicati in via ufficiale, ma vennero piratati nel 1981. Ovviamente, senza conoscere il contesto, possono sembrare testi razzisti, soprattutto per il pubblico americano, ma Get Back ci mostra come andarono veramente le cose, e conferma la satira verso quel razzismo crescente e immotivato dell'epoca. 

Ci sarebbe molto altro da dire, ma meglio fermarci qui. Non vogliamo rovinarvi altri momenti, se non l’avete ancora visto, ma soprattutto vogliamo conoscere altre sfumature, quindi non esitate a farcele notare!

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