lunedì 3 gennaio 2022

#PennyLane: Strawberry Fields Forever, capitolo IV

⚠️ VM.18

Questa è un'opera di fantasia. La storia che segue è frutto dell'immaginazione dell'autore e non è da considerarsi reale. È una fan fiction ispirata al testo della canzone "Penny Lane" dei Beatles, i quali detengono i diritti sul brano.
Ascoltando il brano e traducendolo quando avevo tredici anni, mi è venuta in mente questa storia, che è quindi soltanto una mia personale interpretazione della quale detengo ogni diritto.
 Due mesi dopo.     

Non sa cosa sia più straziante tra il silenzio ininterrotto, la mancanza di quello che sarebbe potuto essere, il crollo improvviso di ogni sua certezza, o, più semplicemente, la consapevolezza della fine di un sentimento d’amore incondizionato.
La felicità che aveva provato quando scoprì di aspettare un bambino l’aveva portata a scalare le vette più alte dei suoi umori, le era sembrato quasi di toccare l’Universo e di scoprirne ogni sua forma. Non si era mai sentita così nel corso della sua vita. Felicità, amore, serenità, senso di pacatezza, euforia… era tutto un insieme di emozioni positive, un arcobaleno di gioia. Arcobaleno. La parola giusta: l’arcobaleno è un’illusione ottica, un qualcosa di astratto ed effimero che dura poco, il tempo di osservarlo, di apprezzarlo, poi svanisce. Proprio come la sua gravidanza.

Inizia a piangere forte, non le importa, tanto è a casa da sola. Philip si trova a lavoro e anche se distrutto interiormente, esteriormente non lascia trasparire nessun rammarico. Deve essere più facile per gli uomini: loro non portano una vita dentro, non la sentono crescere, non cambiano dal momento del concepimento. Agatha si sente incompleta, ha perso una parte di sé, un dono che ha sognato di stringere tra le sue braccia ogni notte e ogni giorno.     

Si morde le labbra fino a farle sanguinare, alza lo sguardo ma vede tutto opaco, non ha neanche la forza di mettere a fuoco l’ambiente circostante. Rimane a letto, non si alza, non le interessa sistemare la casa e suo marito non fa obiezioni. Ma quanto durerà? Per quanto la lascerà trascinarsi tra i giorni che passano uguali e apatici? La riprenderà al volo o la lascerà sprofondare nell’aspirale dell’oblio?

Se Philip fosse stato John o Paul, lei non sarebbe mai rimasta sola, ha questa certezza. Ce l’ha perché non l’hanno mai lasciata. Alla notizia della gravidanza John aveva reagito mandandola via con freddezza. Paul l’aveva abbracciata, si era congratulato con lei e le aveva detto che avrebbe potuto contare su di lui in qualsiasi momento, chiamandolo a casa o agli studi. Lei non ne aveva mai approfittato, fino a qualche settimana fa, quando rimasta da sola per la prima volta dall’uscita dell’ospedale, gli aveva telefonato in lacrime. Lui si era presentato alla sua porta mezz’ora dopo, con John.     

E puntuali come ogni giorno, alle dieci in punto, bussano alla sua porta. Lei la lascia aperta, perché non le è mai andato di alzarsi, ma loro le danno sempre la possibilità di farlo bussando. Non resistono molto fuori, anche se completamente imbacuccati, hanno paura di essere riconosciuti, quindi entrano dopo poco meno di un minuto. Philip lo sa, i vicini non sono così invadenti, ma Agatha non riesce a nascondergli niente. Così gli ha parlato di John, di Paul e del loro passato. Ha omesso di parlargli dei sentimenti che ancora provano, ma solo perché nessuno dei tre lo ha mai fatto veramente, e dopo un aborto è più difficile intraprendere qualsiasi tipo di discorso.

«Ha ordinato il servizio in camera?» John fa capolino dalla porta, Agatha rimane sdraiata, non riesce neanche a sedersi. Lui entra lo stesso, seguito da Paul.
Vorrebbero piangere insieme a lei, ma devono dimostrarsi più forti: sono uomini, e sono il suo sostegno. Iniziare la chiacchierata è la cosa più difficile da fare: ogni parola sembra stupida, insignificante, quasi scomposta. Così solitamente iniziano a parlare del tempo, di quello che faranno durante la giornata. La invitano sempre in sala di registrazione, ma lei rifiuta.
«Hai mangiato qualcosa?» chiede Paul mentre apre la finestra per far cambiare l’aria in camera da letto.
«Un’insalata ieri sera.»
«È un po’ poco…»
«Perché? Chi dovrei sfamare?»
«Te stessa.» le risponde severo John.
Paul gli lancia un’occhiata di ammonizione, ma lui alza le spalle. «Non mi scuserò per quello che ho detto.»
Guarda verso Agatha. «Hai deciso di lasciarti morire? Ciò che ti è successo è devastante e nessuno potrà mai capirti, ma devi andare avanti, puoi riprovarci,» non sa neanche lui come sia stato possibile pronunciare quelle parole senza avere un attacco di gelosia nell’immaginarla a letto con suo marito, forse l’amore supera le barriere mentali di chi lo prova. «o puoi anche non farlo, basta che mangi.»

Agatha non si vergogna di piangere davanti a loro, non è di certo la prima volta. Chiude gli occhi, ha pianto così tanto che le lacrime bruciano sulla pelle. È così stanca che non si sforza neanche di trattenerle, o di farle uscire: hanno il pieno controllo di andare dove vogliono. Paul si siede sul letto e le accarezza i capelli.
«Possiamo prepararti qualcosa se vuoi.»
Lei scuote la testa. Si sente completamente inutile, loro vengono lì ogni giorno per supportarla, darle una mano e lei li mortifica in questo modo.
«Avrai altre possibilità, non devi mollare.» Paul le bacia lo zigomo sinistro e lei si sente un po’ meglio.

Un mese dopo.     

I sentimenti sono come l’acqua: possono rimanere calmi ma creare correnti invisibili al nostro conscio, fino a diventare delle tempeste. E spesso, come ci sono state onde alte tre o quattro metri, così tutto ritorna alla normalità. Un giorno Agatha ha apprezzato il debole sole di maggio entrare dalla finestra, restando a osservare il cielo senza muoversi dal letto. Un altro ha sorpreso Philip con una semplice frase: “lasciami la finestra aperta”. Un altro ancora ha atteso John e Paul seduta sulla poltrona accanto l’armadio. E sedersi a quella poltrona era già stata una vittoria: l’aveva comprata in previsione delle notti passate in bianco ad allattare o riaddormentare suo figlio. Aveva accarezzato il tessuto chiudendo gli occhi, e un giorno riuscì persino a sorridere.

Ora sta cucinando il pranzo, anche se sono appena le dieci del mattino. Non sa spiegarsi cosa l’abbia spinta a scendere in cucina e rimettersi ai fornelli, forse solo la voglia di ricominciare.
John e Paul bussano come al solito, ma lei non va ad aprire, vuole sorprenderli. Aprono la porta  parlano tra di loro, sicuramente di lavoro visto che in realtà è solo Paul a tenere vivo il discorso.
«Buongiorno.» dice ad alta voce poco prima che prendano le scale.
«Buongiorno.» risponde Paul, con un sorriso luminoso.
John si avvicina ai fornelli, respirando l’odore di scouse che gli ricorda l’infanzia. «Non è un po’ troppo presto?»
«È per voi, così ve lo portate in studio.»
«Siamo tornati al liceo?»
Paul dà una pacca sul petto di John. «Non starlo a sentire, grazie Gathie.»
Lei abbassa la fiamma del fornello, mette il coperchio sulla padella e si volta. «Veramente grazie a voi.»
«Non ti avremmo mai lasciata sola, nonostante tutto.»
E forse quello era il momento di affrontare il loro passato, per potere affrontare il futuro.
«Se avessi saputo…»
«Non iniziare. È inutile pensare a questo. Ci siamo ritrovati, no?» la rincuora Paul.
Agatha annuisce.
«C’è troppa tensione.»
John tira fuori dei piccoli pezzettini di carta dalla tasca dei pantaloni. Paul sa molto bene cosa siano, Agatha lo immagina solamente. Rosemary e Serena, le sue sorelle, le hanno parlato dell’LSD e di come questo le aiuti con i loro problemi, a “mettersi in contatto con l’intero universo.”
John nota che Agatha tiene gli occhi fissi sui foglietti che sta spezzando. «Hai mai provato?»
Lei scuote la testa.
«È arrivato il momento.»

Le hanno spiegato fin dei minimi dettagli cosa fare: liberare la mente, rilassarsi, pensare che tutto sarebbe andato bene, poi prendere il piccolo cartoncino quadrato e farlo sciogliere sulla lingua. Avrebbe iniziato il viaggio più bello della sua vita: quello mentale, nei meandri della sua anima e della sua psiche. Accanto a lei avrebbe avuto John, a guidarla attraverso le molteplici allucinazioni. Paul sarebbe rimasto vigile, nel caso si fossero messi in pericolo.
Sono passati venti minuti, ma nulla sembra essere cambiato nella mente di Agatha. John le prende la mano, si siedono a terra, lui chiude gli occhi e in un sussurro le dice che tutto sta iniziando. Lei lo imita, chiude gli occhi e si lascia guidare dalla sua voce.
«Siamo a casa, Gathie. Siamo piccoli, non abbiamo problemi.»
Solo nella mente di John inizia a suonare una canzone che lui conosce bene, ma come in una sorta di telepatia, Agatha ne avverte tutte le sensazioni e le emozioni.

“Let me take you down/’Cause I’m going to Strawberry Fields/Nothing is real/And nothing to get hung about/Strawberry Fields forever”


Lei lo vede: il cancello rosso si apre lentamente e dopo anni rientra nel giardino dell’orfanotrofio a Woolton, dove John la portava nei pomeriggi senza pioggia. Lì aveva passato la sua infanzia e la sua adolescenza. Non sempre era felice di andarci, avrebbero dovuto studiare, ma adesso quelle sue angosce si placano, quei problemi sono lontani, non sono più suoi. Appartengono ad Agatha ragazzina, così come i problemi dell’Agatha adulta non apparteranno più all’Agatha anziana. Si sente divisa in tre: passato, presente, futuro si fondono e dal triangolo delle tre Agatha, diventa un cerchio dove Agatha bambina rincorre la versione adulta, la versione adulta rincorre quella anziana e l’anziana torna a essere Agatha bambina. Nulla è reale, eppure lei può toccare i colori dei fiori nel prato a Strawberry Fields. Tocca il verde dell’erba alta, tocca il marrone della terra bagnata. Ed è felice, senza alcuna preoccupazione.

“Living is easy with eyes closed/Misunderstanding all you see/It’s getting hard to be someone/But it all works out/It doesn’t matter much to me.”

Agatha si ritrova allo specchio, faccia a faccia con se stessa e con tutto ciò che prova. Ansia, felicità, panico, amore, tranquillità… ogni sentimento esce luminoso dal centro del suo petto e ne percepisce l’odore. Il suo volto è tondo, bianco, ricorda quasi la luna. Al centro della fronte si sta formando un altro occhio, ed esso non guarda attraverso i cinque sensi. La trasporta indietro e poi in avanti, in un’altalena di emozioni e ricordi. Quando da bambina si immaginava madre, quando da ragazza si immaginava per sempre con John e Paul. Piange, ma il terzo occhio le parla e le dice di non farlo. Non importa. Non può trasformarsi in qualcosa che non è e non può affliggersi per una scelta fatta. Può vivere come desidera, può fare ciò che vuole.

“Let me take you down/’Cause I’m going to Strawberry Fields/Nothing is real/And nothing to get hung about/Strawberry Fields forever”

Balla con Agatha bambina, si diverte, a loro si uniscono le sorelle ed è ancora più felice. Poi arrivano i genitori e portano un bagaglio di doveri e aspettative. Ogni valigia ha una sua etichetta: matrimonio, casa, famiglia. Lei non vuole prenderle, lei vuole rimanere a giocare, a divertirsi. Ma i genitori si avvicinano sempre più, sono seri, autoritari. Dietro a loro, John e Paul le tendono la mano. Rimane ferma, ha paura, cosa deve fare? Quale potrebbe essere la reazione dei genitori? Ma è Agatha bambina a parlare, con la voce di Agatha anziana: “Fai ciò che ti dice l’occhio”. La paura la abbandona passo dopo passo, e lei si unisce a John e Paul.

“No one I think is in my tree/I mean it must be high or low/That is you can’t, you know, tune in/But it’s all right/That is I think it’s not too bad.”


Con loro sta bene, anche se si allontanano e si avvicinano con la stessa velocità dell’altalena delle sue emozioni. Poi appare Philip, lei lo ama, ma non è lo stesso amore di John e Paul. È un sentimento che sa di stabilità, di fermezza e tranquillità. Non ha sfumature, John e Paul sono il suo tutto, Philip è solo suo marito. E il terzo occhio le chiede: “Cos’è per te più importante?”. “Vivere la vita” risponde. “E cosa vuol dire vivere la vita?” chiede Agatha anziana. Ma non serve rispondere, perché già sa la risposta. “Cosa vuoi raccontare ai tuoi nipoti?” domanda ancora Agatha anziana. “L’amore.” E continua a camminare con John e Paul.

“Let me take you down/’Cause I’m going to Strawberry Fields/Nothing is real/And nothing to get hung about/Strawberry Fields forever”


Rivede Liverpool, Amburgo, ancora Liverpool. Li segue anche in posti che non ha mai visto: vede l’America, l’India, Parigi… riconosce posti che non ha mai visitato, respira odori che non ha mai annusato, assapora gusti che non ha mai assaggiato, tocca oggetti di materiali che non conosce. Riscopre sentimenti che non ha mai provato.

“Always, no sometimes, I think it’s me/But you know I know when it’s a dream/I think a “no”, I mean a “yes”/But it’s all wrong/That is I think I disagree”

Ora Agatha è sola, del tutto sola. Senza le altre due Agatha, senza tutte le persone che hanno fatto parte della sua vita. È sola con se stessa e si sente persa. Sa che deve prendere una decisione. Si forma un sentiero nel bosco, guarda indietro e vede tutto quello che è stato. Guarda attorno e vede tutto quello che è. Guarda davanti e vede quello che sarà. Ed è lì che Agatha anziana le tende la mano.

“Let me take you down/’Cause I’m going to Strawberry Fields/Nothing is real/And nothing to get hung about/Strawberry Fields forever”

Non sa quanto tempo sia passato, sa solo che ha molta sete e che il sole è alto nel cielo. John e Paul parlano, ridono, la guardano.
«Allora? Vieni con noi a Parigi?»
Dovrebbe essere confusa, Parigi? Chi ha parlato di Parigi? Si tocca la testa, si sente reale ma non abbastanza reale come prima.
«Sì.»
Non sa neanche lei il perché di quella risposta, sa solo che deve essere un sì.

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