mercoledì 14 dicembre 2022

#PennyLane: ... I love you more - extra

⚠️ VM.18

Questa è un'opera di fantasia. La storia che segue è frutto dell'immaginazione dell'autrice e non è da considerarsi reale. È una fan-fiction ispirata al testo della canzone "Penny Lane" dei Beatles, i quali detengono i diritti sul brano.
Ascoltando il brano e traducendolo quando aveva tredici anni, le è venuta in mente questa storia che è quindi soltanto una sua personale interpretazione della quale detiene ogni diritto.

Attenzione: i capitoli "extra" sono da considerarsi estrapolazione della fan-fiction stessa, vi consigliamo di leggerli dopo aver concluso la storia originale. Molto probabilmente verranno pubblicati in ordine del tutto casuale e con stili differenti.

La prima parte del racconto è disponibile cliccando qui.

«Insomma, cercherò di essere rapida, non vorrei vederti invecchiare.» Agatha lancia uno sguardo di sfida alla nipote, che ride. «Sai bene cosa succede in adolescenza, con le prime cotte: ci si ossessiona. Cercavo ogni scusa per passare davanti la scuola di Agnes, lei sapeva il perché, ma non mi sgridava, anzi. Forse incentivava il tutto, infatti chiedeva a nostra madre se poteva fare le compere con me i pomeriggi, solo per farmi passare davanti all’Istituto. A volte non lo vedevo, ed ero veramente giù. Agnes provava rincuorarmi con qualche dolce. Ma i giorni in cui lo vedevo, invece, ero su di giri. Avevo un diario, ho ancora quel diario. Ricordo che sulla pagina iniziale avevo scritto “Agatha Lennon”.
Poi arrivò il giorno che diede inizio al tutto. Stavo in attesa di Agnes, ma questa volta c’erano anche Rosemary e Serena. Era primavera, mamma ci aveva preso un appuntamento dal parrucchiere e saremmo andate tutte insieme. Sentivamo urlare, e non capivamo bene il perché, finché un ragazzo, non John, ma un altro, arrivò da noi e in un secondo ci mollò sei volantini. Si parlava di una festa in un parco, ma io ero più presa al nome “The Quarrymen”. Era il gruppo in cui suonava John, e ci sarebbero stati. Quando è arrivata Agnes ho urlato di gioia, e l’ho abbracciata. Lei ha detto trionfante: “Bene, ora dobbiamo solo convincere mamma e papà”. E verso il parrucchiere, ho ammesso anche a Rosemary e Serena di essere innamorata.»

Vedendo come Lucrezia era rapita dal suo racconto, Agatha non se la sentì di ammettere la stanchezza. Così continuò, dopo aver mandato giù un sorso d’acqua dal bicchiere portatole da Paul.
«Fu Agnes a convincere i nostri genitori, che acconsentirono, ma vennero con noi. Dentro di me mi sentivo distrutta. Già mi immaginavo scenari dove John sarebbe sceso dal palco e da lì mi avrebbe portata chissà dove, lontano da Liverpool. Ma con i miei nelle vicinanze, non sarebbe potuto accadere. Comunque non me ne lamentai, era già tanto se potevo fissarlo per tanto tempo senza passare per una pazza.
Arrivammo puntuali, i miei odiavano il ritardo. E con mia enorme sorpresa, furono anche ben felici di lasciarci libere, o meglio: sotto la responsabilità di Agnes e Rosemary che erano le più grandi. Ricordo anche che papà ci diede qualche moneta, in caso volessimo mangiare. Ovviamente non utilizzai neanche un centesimo, avevo lo stomaco chiuso.
Ancora adesso, se chiudo gli occhi, posso ricordare vivamente com’era bello John su quel piccolo palco. Quando cantava e suonava, spariva tutto ciò che c’era accanto a me. Non so se ho ballato, se mi sono mossa, o ho urlato. Ricordo solo di aver fissato John e di essermi sentita leggera.
Poi il concerto finì, senza nessuna proposta di fuga, e soprattutto senza nessuno sguardo ricambiato. Almeno così credevo…»

Agatha sorride guardando lo sguardo della nipote spegnersi. «Nonna! Non puoi fare una pausa proprio adesso.»
«Devo, tesoro. Ho bisogno del bagno. Ci metto poco.»
Solo quando la nonna ha lasciato la cucina, Lucrezia si rende conto di essere rimasta da sola con Paul McCartney. Ha sempre fantasticato su qualcosa del genere, ma in quelle fantasie, lui aveva venticinque, trent’anni e lei lo intervistava. Poi, beh, poi accadeva sempre altro.
Sente un brivido lungo la schiena, ora come non mai si rende conto che più volte si è toccata pensando a un coetaneo di sua nonna. “E se…no.” blocca sul nascere un ragionamento che sa la farebbe inorridire. “La storia parla di John, nonna non può aver fatto nulla con…” ma ne è davvero sicura?
«Sembrate molto uniti…»
«Lo siamo.» risponde subito Paul. Vuole andarci con tatto, davanti ha una persona che non è a conoscenza di nulla; la nonna le ha omesso gran parte della sua vita, e lei potrebbe sentirsi ferita. In un certo senso, Lucrezia non sa nulla del suo privato, ma lui sa tutto di Lucrezia. Crede che sia ingiusto, ecco perché lascia parlare Agatha. Non vuole mettersi in mezzo più del dovuto. Si sta anche chiedendo se sia giusto rimanere lì.
«Tu le somigli molto, sai? »
Lucrezia annuisce, lo sa e ne è sempre andata orgogliosa. Ha delle foto della nonna quando era giovane, alcune anche sul cellulare. Lo prende per mostrarle a Paul. «Tu l’hai conosciuta così?»
Paul arrossisce, è incredibile come anche dopo i settanta si riesca ancora a emozionarsi in quel modo. Agatha torna dal bagno e Lucrezia nota come quel luccichio negli occhi di Paul non sia cambiato quando lo sguardo si è posata sull’Agatha di adesso.
Forse con John non è andata bene, e poi nonna ha conosciuto Paul. Sì, ma poi Linda? Forse…
«Riprendiamo?»
Lucrezia annuisce.

«Abbiamo raggiunto i nostri genitori, per chiedere se potevamo restare un po’ di più. Alla fine eravamo rimaste davvero sotto il palco, e lo stomaco ci brontolava terribilmente. Serena era l’unica che voleva tornare a casa, così papà, che ci aveva osservate con attenzione tutto il tempo, vedendo che poteva effettivamente fidarsi, ci lasciò del tutto libere. Agnes però aveva la totale responsabilità, se qualcosa fosse andata storta, la colpa sarebbe ricaduta solo su di lei.» Agatha cercò di fare il tono duro del padre, ma ci riuscì poco, poi si arrese sotto i colpi della tosse.
«Suo padre faceva sul serio paura. Un omone alto, russo. Non l’abbiamo mai visto sorridere.» Aggiunge Paul.
«Sorrideva poco, è vero. Comunque, ero molto unita con le mie sorelle, e mi era sfuggito il fatto che Agnes e Rosemary ci stessero mettendo una vita a scegliere su quale bancarella andare, sicuramente per darmi la possibilità di incontrare John. Però in quel momento non mi andava di seguire il filo del loro discorso, ero persa nei miei pensieri. Rivedevo ancora John sul palco, e allo stesso tempo ero impaziente di tornare a casa, a dir la verità. Saperlo lì, a qualche metro da me, magari mentre parlava con qualche altra ragazza, mi dava fastidio. Poi mi resi conto che Rosemary mi stava parlando da un po’, ma io non l’avevo sentita. Mi ripeté di mettermi seduta ai tavoli, loro sarebbero venute con dei vassoi misti. Non capivo il perché, in quegli anni noi ragazze mangiavamo veramente poco, ma quando loro si allontanarono abbastanza, John venne da me.
Mi domandò se mi era piaciuto il concerto, e gli risposi ovviamente di sì. Si tolse la custodia della chitarra dalle spalle e la posò a terra, poi mi si sedette davanti. “Io ti piaccio, Romanova?”. Mi fece quella domanda così, di getto. Non me l’aspettai, e mi arrabbiai tantissimo. Avevo nella mente l’ideale di un amore mieloso, e in più quel Romanova urtò il mio senso di appartenenza. È vero, papà era di Mosca e mamma di Tehran, ma io in quei luoghi non ero mai andata, mi sentivo inglese al cento per cento. Così dissi qualcosa che ora non ricordo, tanto era impulsiva la mia risposta. Lui comunque sorrise, e io mi zittì di colpo. Ha sempre saputo come farmi sciogliere. “Comunque sei molto bravo.”. Riuscì a dirgli. “Lo so.” Rispose subito dopo. Mi offrì una coca-cola e ci mettemmo a parlare. Quando vide le mie sorelle arrivare, si alzò di scatto e si avvicinò al mio orecchio. “Non mi spiare più, vienimi a parlare.” Poi facendo un cenno di saluto anche a mia sorella, urlò: “Ci vediamo, Romanova”, e mi rivolse un occhiolino.»

«E poi? Sei andata da lui?»
«Se John ti lanciava una sfida, dovevi coglierla. Sì, sono andata a parlargli. Non era facile, stava sempre in compagnia di qualche amico. Ricordo che una volta lo vidi seduto sul muretto del cortile, sigaretta alla bocca, che disegnava. Non l’avevo mai visto così concentrato. Mi avvicinai e gli chiesi cosa stesse disegnando. Lui mi guardò stupito, pensava che alle ragazze interessasse solo la musica come forma d’arte. “Beh, a me l’arte interessa tutta.” Ero sincera. “Non sono brava in niente di artistico, così mi piace osservare chi la sa fare, come se potessi rubargli il talento. A volte spio Agnes mentre dipinge, lei non mi vuole attorno perché deve farlo in solitudine, almeno così dice. Posso vedere?” John portò l’album da disegni al suo petto e disse: “No.”. Ci rimasi così male che non uscii per qualche giorno. Poi un sabato mattina, lo ricordo bene perché pioveva forte e volevo solo rimanere nel letto a dormire, mamma mi costrinse ad andare al mercato. Non ricordo il perché le mie sorelle non vennero con me, comunque mi coprii bene e andai. Lo trovai dietro l’angolo della mia via, con l’ombrello in mano, ma comunque totalmente zuppo. Tirò fuori dalla giacca un foglio stropicciato e un bel po’ bagnato. Mi disse di aprirlo quando stavo a casa. Ricordo di aver fatto così velocemente che mamma ricontrollò più volte la spesa, sicura avessi dimenticato qualcosa. Così non fu e una volta arrivata nella mia stanza, mi misi seduta a terra, appoggiata alle sponde del letto. Il disegno aveva uno stile infantile, ma c’eravamo noi due, su un prato. Lui mi suonava la chitarra e io lo ascoltavo. Dalla sua chitarra uscivano cuori che andavano verso di me. Sotto una semplice scritta: “Per Gathie, da John.” Nessuno mi aveva mai chiamata così. Incollai il disegno sul mio diario, ecco perché ancora lo tengo.»

«Ma è tutto così romantico!»
«No, eravamo dei bambni. C’era solo innocenza.»
Lucrezia fa una smorfia, non riesce a capire bene il tutto. «Tu che hai fatto dopo quella dichiarazione?»
«Ne ho parlato alle mie sorelle. Io ero veramente piccola, avevo appena compiuto quindici anni. All’epoca si era bambini. Serena, più piccola di me, era estasiata, ma io volevo il parere di Agnes, che era maggiorenne. Lei aveva avuto esperienze, la sentivamo uscire di nascosto quando mamma e papà dormivano, e in più conosceva John, anche se indirettamente. “So che John disegna molto, penso abbia fatto anche una specie di giornale scolastico, ma lo condivide solo con i suoi amici. Agatha, Gathie,” mi fece il verso. “non so cosa pensare, ma viviti questa esperienza nel modo più spensierato possibile. Non credo che John possa mai diventare l’uomo ideale da sposare. Non ti posso neanche assicurare che non faccia così con altre…” A quelle parole avvertii qualcosa di strano, in quel momento non ero gelosa. Leggendo i romanzi o vedendo i film romantici, mi aspettavo qualcosa di simile alla gelosia, invece niente. Mi dissi che forse non ero innamorata, col tempo capii invece che lo ero veramente, ma ci arriveremo.»

Così Agatha blocca la domanda di Lucrezia sul nascere.
«Mi feci dire da Agnes dove abitava John, lei dovette fare qualche chiamata alle sue amiche, ma alla fine l’indirizzo uscì fuori. Scoprii che abitava con la zia, insolito, ma mi ripetei che non dovevo fare domande, non sarebbe stato carino. Aspettai la domenica pomeriggio, quando mamma e papà si appisolavano ascoltando la radio. Mi infilai le calze e una gonna che avevo acquistato la settimana prima. Stava arrivando la bella stagione, e ci sarebbero stati più concerti dei Quarrymen, così avevo fatto un po’ di shopping. La gonna era una di quelle che andavano di moda all’epoca, a vita alta, per risaltare i fianchi. Ricordo che mi stava strettissima, non riuscivo a respirare.
Così arrivai da lui con il fiatone. Mentì alla zia, dicendole che ero una compagna di scuola e che dovevo dare degli appunti a John. Mi guardò con sospetto, aveva sicuramente capito tutto, ma mi lasciò entrare. Lui stava in salotto, accanto a una donna che gli somigliava tantissimo. Non era il John spavaldo della scuola o dei concerti. Aveva una maglietta nera a collo alto, teneva gli occhiali da vista, quelli con la montatura grande, sembrava quasi più piccolo. Mi morsi le labbra perché pensavo di essere stata troppo invadente, ma poi quella signora gli disse: “Vai dalla tua amichetta, Johnny.” Arrivò da me, superandomi per farmi strada verso la sua stanza. “Lei è Julia, mia madre. E quella che ti ha aperto la porta, mia zia, Mimi.” Arrivati sul pianerottolo mi sorrise e poi mi fece una smorfia maliziosa. “Dove li tieni gli appunti che devi darmi, nel reggiseno?” Penso di aver sgranato gli occhi, te l’ho detto, eravamo bambini. Almeno così credevo, così mi avevano cresciuta. Con lui era tutto diverso, sentivo il mio corpo fremere e avevo voglia di piangere, per quante emozioni contrastanti prendevano il sopravvento. In più mi diedi della stupida, perché non avevo portato neanche una borsetta con me per rendere la bugia un po’ più sincera.
Prese la mia mano e se la mise sul petto, sentivo il suo cuore battere fortissimo, tanto quanto il mio. Lui me la strinse, e lentamente si avvicinò a me. Ricordo che pensavo: “Dio, ti prego, fa che non cada.” perché le mie gambe erano diventate molli, non le sentivo, tremavo. Poi mi baciò. Non avevo mai baciato prima, e lui penso lo sapesse, perché aveva il pieno comando. Beh, insomma, non credo tu voglia sapere certe cose da tua nonna…»

«No!» la voce di Lucrezia era quasi un urlo. «Cioè, va bene, continua. Ti dico io quando è troppo, tranquilla».
«Va bene…» Agatha e Paul si guardano quasi titubanti, nella loro telepatia si sono detti: “Arriveranno punti dove per lei sarà troppo”.
«Come ho detto, era il mio primo bacio, con annesse paure. Non sul momento, lì non ce ne furono. Iniziarono da quando si staccò da me. “Grazie per gli appunti.” Mi sussurrò all’orecchio, poi infilò la mano sui miei capelli, che portavo sciolti, e mi ribaciò. Al mio secondo bacio cercai di essere più attiva, diciamo. Non posso sapere quanto tempo siamo stati su quel pianerottolo, ma entrambi sapevamo che era abbastanza, avremmo destato sospetti. Mi accompagnò alla porta e sull’uscio mi guardò negli occhi dicendomi: “Fai come se ti stessi ancora baciando, Roman… Gathie.”. Io gli sorrisi, non riuscivo neanche a mandare giù la saliva, figuriamoci a rispondere. Annuì e tornai verso casa.
Ero in Paradiso e all’Inferno insieme. La mia mente era rimasta su quel pianerottolo semibuio a baciare John, e se provavo a portarla alla realtà mi ripeteva: “E ora? Che farai? Sei fidanzata? O per lui sei solo un gioco? Con quante altre ha fatto così? E se anche fosse, ti interessa? Quando lo rivedrai ancora?” Anche tua nonna ha avuto le sue paranoie, e in quegli anni senza messaggini o chat, era anche più difficile.

Poi finì la scuola, e per assurdo io ebbi più momenti con John. Il suo gruppo suonava a qualsiasi festa e occasione, e io andavo quasi sempre a vederlo. A volte eravamo abbastanza fortunati da riuscire ad appartarci, come una sera di fine giugno, alla fiera, dove eravamo nascosti dietro un tendone da circo.
Ci stavamo baciando, e il sudore per l’estate si mischiava al sudore per l’eccitazione del momento. Lui mi mise una mano sul seno, non era la prima volta, ma stavolta era riuscito a metterla proprio sulla pelle. Non mi ero neanche accorta avesse sbottonato i primi quattro bottoni della mia camicia e mi bloccai. Lo vidi seccato, e di nuovo fui colta dal terrore di non essere abbastanza per lui. Mi riallacciai in fretta, e alzandomi da terra, tolsi tutti i fili d’erba della mia gonna. Tremavo per l’ansia, non che mi avesse spinta a fare qualcosa, ma avevo sul serio paura che potesse stufarsi di tutti i miei no.
Lui si alzò dopo di me, mise le mani sulle tasche dei pantaloni e mi guardò.
Un giorno ti fiderai di me.” Lo disse così sicuro di sé che mi chiesi quando gli avessi detto che non mi fidavo.
Ma io già mi fido di te. Credo solo di non essere abbastanza donna per te.” Le paure che avevo riguardavano solo me, come io mi guardavo allo specchio.
Prese un foglio dalla giacca, lui mi aveva dato anche altri disegni, così lo presi di scatto, curiosa di vedere cosa avesse raffigurato. Una casa, con noi due in un giardino e qualche bambino, ne avevo contati cinque, che giocavano lì attorno.
Risi con il cuore colmo di gioia. “Vuoi davvero cinque figli?
Da te ne vorrei anche cento.”.

«Oh mamma!» L’immagine che la nonna le stava dando di John era così diversa da quella che lei aveva immaginato leggendo interviste o seguendo i testi delle sue canzoni. Un John romantico, così dolce, veramente innamorato, non l’aveva mai sfiorata.
«Non te l’aspettavi, vero?»
Lucrezia scuote la testa, gli occhi sognanti ma anche veramente stanchi. Del viaggio, dell’euforia per Paul davanti a lei. Già, Paul. Persa nei ricordi della nonna, ancora così vividi, si è dimenticata di avere Paul McCartney davanti a lei!
«Comunque questo è davvero l’inizio, una settimana dopo quel momento, incontrammo Paul. Ma ora sono veramente troppo stanca, e mi fa male la schiena. Ne possiamo parlare domani? Anche se dovrai saltare la tua gita ad Abby Road?»
«Beh, credo che non sia più necessario andare lì.» “La nonna è veramente stanca se ha davvero dimenticato che Paul è uno dei Beatles, e che il motivo per cui voglio andare sempre lì è per sperare di incontrarlo.
«Sì, hai ragione. Bene, riposiamoci, allora. Mi spiace averti fatto saltare la cena.»
Lucrezia abbraccia forte sua nonna. La bacia sulla guancia e le accarezza il volto. «Stai tranquilla.» Poi guarda in direzione di Paul: «Domani ci rivedremo?»
«Beh, spero di sì, vorrei proprio svegliarmi.» risponde sarcastico. Lucrezia lo guarda confuso, così lui aggiunge. «Io dormo qui, non preoccuparti».
Se Lucrezia ha mostrato il suo sguardo incredulo non lo sa, forse quel pensiero che non ha mai voluto fare non è poi così distante dall’avere ragione.

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