giovedì 5 maggio 2022

#Musica: Billie Holiday

Il 5 maggio esce nelle sale italiane “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” (The United States vs Billie Holiday) del regista Lee Daniels con la protagonista interpretata da Andra Day. Donna afroamericana divisa tra genio e sregolatezza, aveva il jazz nelle vene, ma le sue scelte di vita e il razzismo che permeava (e che permea tutt’ora) gli Stati Uniti d’America stroncarono la sua fragile vita all’età di appena quarantaquattro anni.

Ma chi era Billie Holiday? Nasce il 7 aprile del 1915 a Philadelphia come Eleanora Fagan, figlia di Sarah Fagan - una ballerina - e Clarence Holiday, un suonatore di banjo. Sin da piccola non riceve l’affetto di una famiglia vera e propria: suo padre l’abbandona per dei tour musicali e la madre, adolescente, è costretta a fare i lavori più disparati pur di tirare avanti. Eleanora viene quindi lasciata dalla nonna e da una cugina che la trattano duramente. Abita con loro a Baltimora, ma subisce anche il razzismo da parte di chi la vede perfino troppo bianca per far parte della comunità dei neri.
All’età di undici anni si mette a lavorare come donna delle pulizie in un bordello insieme alla madre. Nello stesso periodo subisce un tentativo di stupro dal vicino di casa, ma la denuncia le si rivolta contro: in quanto adolescente di colore, viene condannata per adescamento. Trasferitasi più avanti con la madre ad Harlem, Eleanora è costretta a prostituirsi in una casa per appuntamenti per guadagnarsi da vivere. Proprio in un bordello scopre la musica jazz e blues con i dischi di Louis Armstrong che diventa per lei un raggio di sole nella propria esistenza. Quando la polizia scopre il bordello, la condanna al riformatorio. Per evitare di continuare con la prostituzione e innamoratasi della musica, comincia a esibirsi nei nigh club con un nome d’arte: “Billie” come Billie Dove e “Holiday” come il cognome del padre.

La sua voce è spettacolare e comincia ad ammaliare la città, fino a quando non viene notata dal produttore John Hammond nel 1933 che la porta in una sala d’incisione insieme all’orchestra di suo cognato, Benny Goodman. Incide “Your Mother's Son-in-law” e “Riffin' the Scotch”, ma senza successo. Due anni dopo, nel 1935, Hammond le procura un contratto con il famoso pianista Teddy Wilson, con cui incide “What a little Moonlight Can Do” e “Miss Brown”. È questa la svolta, in cui il pubblico comincia a scoprirla. La sua voce è fragile, graffiante, impetuosa e nell’industria discografica si ritrova a rivaleggiare con Ella Fitzgerald. Collabora con nomi importanti del genere, come Lester Young e Artie Shaw diviene il primo direttore d’orchestra statunitense bianco ad avere una donna di origini afroamericane come cantante.

Nonostante la sua bravura, non può nulla contro le discriminazioni. Negli Stati Uniti del Sud viene fischiata, insultata e spesso le è anche impedito di salire sul palco. Non può cenare con l’orchestra nei ristoranti perché per lei non c’è posto e negli hotel non le è permesso prendere l’ascensore “dei bianchi”. Stanca di tutto ciò, Holiday mette nero su bianco una canzone che è come un pugno nello stomaco: “Strange Fruit”. Il brano è una denuncia contro il razzismo, dove lo “strano frutto” non è altro che il corpo appeso di una persona nera che ondeggia nella brezza del Sud. La canzone sconvolge e divide il pubblico, tanto da attirare l’attenzione di Harry J. Anslinger, agente del FBN (la nostra narcotici) noto per essere estremamente razzista, anche per gli standard di quegli anni. L’uomo le proibisce di inserire “Strange Fruit” nel proprio repertorio, ma coraggiosamente Holiday rende quel brano uno dei suoi maggiori successi. Non riuscendo a fermarla, cerca in tutti i modi di incastrarla e, dopo diversi pedinamenti, la scopre acquistare stupefacenti. Nel maggio del 1947 viene arrestata e il giorno del processo i giornali definirono il fatto come “The United States of America versus Billie Holiday”. Viene condannata a diciotto mesi di carcere.

Ha un matrimonio tormentato con il musicista Joe Guy, suo intermediario per gli stupefacenti e negli anni la sua vita si divide tra il riempire i teatri e i problemi legati alla droga e all’alcol. Nel 1947 appare in un film con il suo mito, Louis Armstrong, nel musical “La città del jazz” e nel 1958 si esibisce a Milano. Il pubblico, però, non è abituato al genere e dopo appena cinque canzoni è costretta a tornare in camerino. Solo l’ultimo giorno della sua permanenza in Italia le viene permesso di cantare in piazza dai veri intenditori del jazz.

All’inizio del 1959 le viene diagnosticata una cirrosi epatica, che il 31 maggio la lascia incosciente sul pavimento del suo appartamento a New York. Ricoverata al Metropolitan Hospital Center, viene portata all’ospedale in arresto, con tanto di manette al letto per possesso di stupefacenti. Le vengono diagnosticati problemi al fegato e disturbi cardiovascolari. Inizialmente viene curata con il metadone, per contrastare l’astinenza da droga, e per una decina di giorni sembra migliorare, ma Aslinger, ancora intento a fargliela pagare, ordina che la somministrazione venga interrotta. La salute della Holiday peggiora inesorabilmente e si spegne il 17 luglio del 1959 a causa di un edema polmonare e un’insufficienza cardiaca.

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