mercoledì 1 giugno 2022

#TheBeatles: I am the Walrus

In questa rubrica (se così si può chiamare) in cui parliamo in modo più o meno personale delle canzoni dei Beatles abbiamo parlato di relazioni (e non solo di quella tra John Lennon e Paul McCartney) e religione, di infanzia, ferite emotive e meccanismi di difesa vari, ma non abbiamo mai effettivamente parlato dei significati metafisici all’interno dei brani dei Fab Four. Il che è strano, dal momento che alla Metafisica abbiamo dedicato un’etichetta tutta sua.

Delle duecento e più canzoni da loro scritte e cantate è quasi impossibile sceglierne una, e anche solo pensandoci al volo ne abbiamo contate almeno una ventina.
Poi, dopo essere state combattute per giorni tra “Fixing A Hole”, “Tomorrow Never Knows” e “Across The Universe”, dopo aver letto l’articolo di Frè Nothing is real” abbiamo avuto una sorta di illuminazione, e ci è venuta in mente “I am the Walrus”.

Scritta esclusivamente da Lennon (ma ovviamente accreditata al duo Lennon-McCartney perché ormai abbiamo capito che non erano per la separazione dei beni) e pubblicata nell’EP Magical Mystery Tour del 1967, “I am the Walrus” (io sono il Tricheco) è considerato, poeticamente parlando, uno dei punti più alti della carriera non solo dei Beatles ma anche di John stesso.
Come lui stesso ammise in una intervista del 1980, il brano non fu scritto in un solo momento ma anzi, per citarlo testualmente, scrisse la prima strofa mentre era sotto acidi un fine settimana, la seconda durante un altro trip il weekend dopo, e la terminò dopo aver incontrato Yoko Ono.
Se però la prima strofa ufficiale fu scritta durante un semplice fine settimana, l’ispirazione avvenne ben prima, precisamente quando aveva solo dodici anni: nel quaderno scolastico utilizzato durante la sua infanzia per gli appunti, i disegni, le poesie e le annotazioni furono trovate delle interpretazioni – trascritte e disegnate – di un verso del poemetto “The Walrus and the Carpenter” (Il Tricheco e il Falegname) di Lewis Carroll inserito nel romanzo “Alice attraverso lo specchio”. Che gli scritti di Carroll siano stati i preferiti del cantante ormai è risaputo, quindi non ci stupisce se una delle sue opere più brillanti sia nata proprio grazie al famoso scrittore.

La canzone è una delle più pregne di significato all’interno del repertorio dei Beatles, ma proprio a tal proposito il suo vero e proprio concepimento è molto divertente: John venne a scoprire che all’interno delle mura della Quarry Bank High School di Liverpool – la sua non così tanto amata scuola superiore – le canzoni della band erano sottoposte a ripetuti studi e analisi in quanto considerate di incredibile spessore e ricolme di significato, e di tutta risposta volle esplicitamente scrivere una canzone così nonsense da rasentare l’infantile e l’assurdo. Il biografo ufficiale dei Beatles Hunter Davies riferì che John parlando della canzone affermò goliardicamente “Let the fuckers work that one out” (“Lasciamo che gli stronzi si scervellino su questo”).
Spoiler, Johnny: l’abbiamo fatto.

“I am he as you are he as you are me
and we are all together
see how they run like pigs from a gun
see how they fly
(Io sono lui come tu sei lui come tu sei me
e noi siamo tutti insieme
guarda come scappano come maiali da delle pistole
guarda come volano)”

Sarà anche dichiaratamente nonsense, una canzone di protesta ed è indubbiamente traboccante di riferimenti alla sua infanzia che non possiamo capire per la maggior parte – perché alcune menzioni come i cornflakes, cibo preferito di John, sono più che comprensibili –, ma è anche inevitabile che alcune strofe tutto sono fuorché senza senso, un po’ perché siamo fermamente convinte che John Winston Lennon non facesse mai niente di effettivamente senza senso e un po’ perché oggettivamente le droghe da lui assunte durante la scrittura di questa prima strofa sono conosciute per aprire la mente (ne abbiamo parlato in questo articolo).

Riconosciamo il rischio di sembrare ripetitive, ma crediamo ci sia proprio bisogno di dire certe cose il più possibile affinché rimangano ben impresse: noi di 4Muses crediamo nell’Unità delle cose.
Non siamo solo convinte che il bene e il male sotto sotto siano la stessa cosa, così come lo sono il brutto e il bello, il buono e il cattivo e chi più ne ha più ne metta, noi siamo convinte proprio che non esista l’individualità se si parla dell’essenza di una persona.
Sia ben chiaro, che le quattro Muse siano quattro persone diverse è ovvio, così come è chiaro lo siano –

per esempio – Papa Francesco e Vladimir Putin, ma noi non parliamo del corpo fisico né del carattere e né tantomeno della personalità di qualcuno quando diciamo che non crediamo nell’individualità: noi parliamo dell’anima, che è la stessa identica per tutti.
In un certo senso, se guardiamo alla nostra anima, noi Muse siamo l’un l’altra, così come siamo il nostro peggior nemico. Voi siete il vostro miglior amico e il vostro miglior amico è voi tanto quanto voi siete il vostro peggior nemico e il vostro peggior nemico è voi e allo stesso tempo – ci dispiace per la bomba a mano che stiamo per lanciare – Papa Francesco è Vladimir Putin tanto quanto Vladimir Putin è Papa Francesco (la vedete quella cosa all’orizzonte? È la ✨scomunica dal Vaticano✨).
Afferrato il concetto?

Badate bene, con questo non stiamo dicendo affatto che il nostro corpo e la nostra personalità non vadano amati e coltivati, non fraintendeteci. Se avete letto molti dei nostri articoli (presenti soprattutto in “Pensieri” e “Musica”) sapete quanto è importante per noi arrivare al tanto agognato amor proprio e se ci conoscete, sapete quanto riteniamo importante avere una personalità e un carattere che sia definibile come “nostro” e trattare – al limite delle possibilità umane – il nostro corpo fisico come un tempio e curarlo… d’altronde son tutte cose che ci servono per il nostro percorso ma, arrivati al giorno del giudizio e alla resa dei conti, né il nostro corpo fisico né la nostra personalità verranno giudicati.
Saranno le nostre azioni e la nostra anima a esserlo.

“Sitting in an English garden
waiting for the sun

if the sun don't come you get a tan
from standing in the English rain
(Seduto in un giardino Inglese
aspettando che arrivi il sole
se il sole non arriva ti abbronzi
stando in piedi sotto la pioggia Inglese)”

Sarà che chi sta scrivendo questo articolo è un’ottimista cronica e vede la luce e il bello ovunque, ma questa frase è uno dei suoi motti.
In generale, però, anche se Silvia è l’ottimista per eccellenza, tutte noi siamo fermamente convinte del fatto che sia fondamentale sapersi adattare alla situazione, anche quando le condizioni non sono degne delle aspettative o non sono nemmeno lontanamente quelle desiderate o adatte per fare qualcosa.
Proprio perché siamo arrivate alla consapevolezza – quasi totale – che niente è reale, sappiamo che in realtà le condizioni contano ben poco.

Avete presente quella frase che recita che “La vita è 20% quello che ti succede e per 80% come reagisci”? È una frase fatta ed è così tanto utilizzata che nel corso degli anni ci è andata di traverso, ma è una frase vera.
Abbiamo passato la depressione, i tentativi di suicidio, i disturbi alimentari, le malattie fisiche e mentali, abbiamo guardato in faccia la morte numerose volte e siamo state vittime di abusi psicologici e fisici, ma abbiamo anche viaggiato, amato, ci siamo divertite, abbiamo conosciuto persone meravigliose e fatto infinite esperienze che ci porteremo nel cuore per sempre. Insomma, abbiamo vissuto.
Non c’è niente di speciale nei nostri traumi così come nelle nostre esperienze positive, nella vita di tutti ci sono sempre entrambe le cose, quello che è peculiare è l’approccio che abbiamo avuto con certe esperienze piuttosto che con altre.


Disclaimer: i seguenti paragrafi, seppur sempre scritti in terza persona, sono strettamente legati alle esperienze personali dell’autrice dell’articolo.


Ne parliamo sempre e chi ci sta intorno è ormai pieno delle nostre menzioni, ma nel 2019 abbiamo passato cinque mesi a Londra (a tal proposito abbiamo anche scritto un articolo che potete trovare qui).
Cinque mesi non sono oggettivamente niente di che, ma se hai diciannove anni appena compiuti e non hai mai passato più di quindici giorni da solo al di fuori dal tuo paese natale, cinque mesi sono tutto.
I cinque mesi a Londra ci hanno insegnato la gestione dei soldi, l’amore, la solitudine e ci hanno messo per la prima volta faccia a faccia con le responsabilità della vita adulta. È stata una delle esperienze più belle della nostra vita, tanto che – non abbiamo mai avuto problemi ad ammetterlo – abbiamo lasciato un pezzo di cuore nella grigissima città, e sappiamo che lì rimarrà per sempre.
Soprattutto, però, è stata una delle esperienze più importanti della nostra vita.
Qualche riga fa abbiamo detto che è stata una delle esperienze più belle della nostra vita, ma lo diciamo col senno di poi, perché la verità è che ce la siamo vissuta male. Malissimo.
Le condizioni non sono sempre state ottimali ma avevamo decisamente vissuto di peggio, e anche quando abbiamo cambiato le condizioni di vita non c’era niente da fare: non stavamo bene e anzi, sul momento eravamo fermamente convinte che non ci potesse capitare un’esperienza peggiore.
Di contro nel 2013 abbiamo passato due mesi in ospedale. Fisicamente non abbiamo mai toccato un punto così basso e il reparto in cui siamo state ricoverate è ancora oggi uno dei reparti peggiori dell’OPBG (Ospedale Pediatrico Bambin Gesù), ma potrà sembrare assurdo: ce la siamo vissuta così bene da essere genuinamente tristi una volta arrivato il momento delle dimissioni, per non dire che ci è mancato l’ambiente per almeno due anni. E no, non ironicamente.

Questi sono solo due esempi personali, ma il concetto dovrebbe essere chiarissimo anche senza spiegazioni, e per noi sono veramente due esempi lampanti di quanto ci sentiamo affini alla strofa scritta da John.
D’altronde, anche in natura non è mai veramente importante il luogo in cui crescono i fiori.
Piuttosto, quello che conta è lo stato di salute del terreno.

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